Unigestion. Fattori alla base della “giapponizzazione” dell’economia: come adattare il proprio portafoglio

courseMERGERnew3Sin dal 1979 le Banche centrali dei Paesi del G10 hanno compiuto sforzi concertati per domare l’inflazione. Con forza e continuità, sono riuscite a ridurre con successo i tassi d’inflazione, passando da oltre il 10% a meno del 2% oggi. Missione compiuta, ma forse un po’ troppo. Probabilmente per la prima volta in 40 anni l’inflazione è costantemente al di sotto delle aspettative e le previsioni sono al ribasso. A rendere ancora più complicato il quadro vi è poi il fatto che oggi siamo a fine ciclo, cioè in un periodo in cui le Banche centrali lottano tradizionalmente contro l’inflazione, non a favore. Come si spiega l’attuale situazione nei dati macroeconomici e quali sono le sue implicazioni in termini di sentiment e valutazione del mercato? Nel complesso, riteniamo che questa situazione sia di supporto per gli asset e le strategie carry-yielding. La domanda di fondo ce la siamo già posta in precedenza: ci siamo persi in Giappone? E come possiamo adattare i nostri portafogli a questa situazione?

Macro: il percorso dell’inflazione che continua a mancare
Da qualche tempo l’inflazione non raggiunge gli obiettivi delle Banche centrali. La maggior parte di queste punta a un target a lungo termine del 2%, ma dal 2016 qualcosa non ha funzionato. Nell’area euro, l’inflazione core (cioè al netto degli elementi ciclici) è aumentata di circa l’1% all’anno nel periodo. Negli Stati Uniti, le cose sembrano più incoraggianti. L’inflazione core si è attestata intorno al 2%, ma quando si elaborano i dati la situazione appare simile a quella del resto del mondo: gran parte dell’attuale tasso di inflazione core statunitense (2,4%) deriva dal costo dell’assistenza sanitaria e dall’inclusione della sua copertura. Al netto di entrambi i fattori, negli USA l’inflazione core scende al 2,1%: un numero non elevato dato che siamo a fine ciclo. Un discorso analogo si può fare per Canada, Svezia, Norvegia, Svizzera e naturalmente Giappone. Alla fine del ciclo 2006-2007, queste cifre erano molto più alte: cosa manca oggi?
In primo luogo, la teoria economica prevede che il tasso di crescita a lungo termine dei prezzi dovrebbe essere fortemente legato a quello dei salari. Che cosa sta succedendo, dunque? Nell’Eurozona, il tasso di crescita dei salari dal 2011 al 2018 è stato di circa l’1,5%: è difficile vedere l’inflazione raggiungere valori più alti. Questo dato è aumentato di recente: a giugno ha raggiunto il 2,7%, a indicare la possibilità di una stabilizzazione dell’inflazione. Negli Stati Uniti, la crescita salariale si attesta attualmente intorno al 3,5%, secondo la Fed di Atlanta. Questo incremento non è basso, ma è ancora inferiore a quello del 2006-2007 (era di oltre il 4% allora). In Canada, i salari sono cresciuti del 4,5% dal 2017, al di sotto del 6% osservato nel 2006-2007. La situazione salariale è quindi ancora favorevole a un’inflazione superiore all’1% nei paesi del G10, ma inferiore a quella del ciclo precedente. Questo però spiega solo una piccola porzione della situazione attuale.

Il pezzo mancante deve probabilmente essere trovato altrove. Dalla crisi del 2008 la domanda è cresciuta a un ritmo più lento del solito. Secondo i dati del Fmi, tra il 2006-2007 il Pil mondiale è cresciuto in media del 5,5% e gli investimenti del 10%. Nell’ultimo periodo queste cifre sono scese rispettivamente al 3,5% e al 7%: è evidente che gli investimenti ed i consumi hanno subito un rallentamento. Ciò ha avuto due conseguenze fondamentali: in primo luogo, ha determinato un rallentamento della crescita dei prezzi delle materie prime. L’investitore esperto ricorderà quando il petrolio raggiunse un picco di oltre 140 dollari al barile nel 2007, rispetto ai recenti massimi di soli 75 dollari. Un esempio analogo può essere fatto con la maggior parte delle materie prime. Esse non sono incluse nell’inflazione core, ma quando i prezzi aumentano per un periodo sufficientemente lungo, alla fine contaminano gli indici dell’inflazione core spingendo i prezzi di altri prodotti verso l’alto.

La seconda conseguenza è che, con una domanda più debole, diventa più difficile per le imprese trasferire al consumatore l’aumento dei costi di produzione. Negli Stati Uniti, nel periodo 1990-2006, il rapporto CPI/PPI è cresciuto dell’1,2%, ma dal 2008 si è mantenuto stabile: il pricing power delle aziende è chiaramente crollato. Il problema della minore inflazione si collega alla modesta crescita economica. Tuttavia, dovrebbero essere elencate altre fonti strutturali di bassa inflazione, come l’impatto dell’invecchiamento della popolazione, la combinazione di globalizzazione e deindustrializzazione che grava sui salari e sul pricing power, mentre i servizi stanno guadagnando una quota maggiore del valore creato, a spese dell’industria. Di recente, i nostri Inflation Nowcaster hanno segnalato sorprese inflazionistiche potenzialmente negative. Una situazione di bassa inflazione è quindi un elemento essenziale, ora.

Sentiment e valutazione: siate selettivi nelle vostre strategie di carry
Dal punto di vista degli investimenti, è essenziale comprendere come la bassa inflazione influenzi il sentiment del mercato e le valutazioni degli asset. In primo luogo, in termini di sentiment, riteniamo che questa situazione di bassa sorpresa inflazionistica comporti un orientamento accomodante più a lungo termine da parte delle Banche centrali. Le recenti mosse della Bce e della Fed indicano, a nostro avviso, che il sentiment verso gli asset e le strategie carry-related dovrebbe rimanere positivo. La ricerca di rendimento innescata dal quantitative easing è qui per rimanere, almeno nell’Eurozona, dove dovrebbe persistere più a lungo. Questa situazione di bassa inflazione dovrebbe mantenere un contesto in cui il sentiment verso gli asset carry-related dovrebbe rimanere positivo.

Quali asset beneficeranno di questo sentiment positivo? Per rispondere a questa domanda abbiamo pensato di confrontare i carry dei premi al rischio da una prospettiva trasversale (cioè quali premi al rischio restituiscono il carry più elevato per una data unità di rischio) e da una prospettiva di serie temporali (quali premi al rischio restituiscono il carry più elevato rispetto alla propria storia). Un’analisi di questo tipo mostra come sia il credito investment grade che high yield siano oggi attraenti: offrono un carry interessante e al contempo rappresentano il potenziale target di acquisti frenetici di una banca centrale in caso di deterioramento del ciclo macroeconomico. Riteniamo inoltre che, per ragioni simili, le strategie quali il bond carry e il dividend carry siano interessanti: sono attraenti sia da una comparazione storica che cross-asset. Lo screening del sentiment e delle valutazioni (l’altro lato del carry coin) è essenziale per sfruttare il potenziale impatto di una situazione caratterizzata da bassa inflazione.
Asset allocation: go carry go!
L’inflazione dovrebbe rimanere in gran parte sotto controllo, pur continuando a mancare in certi periodi. Le banche centrali sono preoccupate per la “giapponizzazione” delle rispettive economie e lottano contro di essa utilizzando tutti gli strumenti disponibili. Alla fine, l’unico errore commesso dal Giappone è stato quello di esitare. Questo, a nostro avviso, potrebbe rafforzare il sentiment verso le strategie di carry, soprattutto verso quelle a carry più elevato. Perciò attualmente sovrappesiamo l’investment grade, l’high yield, il bond e il dividend carry. La paura di “perdersi in Giappone” può essere sia un’opportunità che una minaccia per gli investitori: siate selettivi nei carry in cui investite, in quanto possono anche diventare trappole valutarie. Le strategie di carry VIX nel 2018 ne sono state un esempio notevole. Essere dinamici è essenziale: monitoriamo sia il sentiment che le valutazioni per evitare eccessi.

 

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