Uno sguardo inedito su un dramma antico. Ecco le bufale che avvelenano il Mezzogiorno, ma il Paese non ha ancora fatto i conti con il suo passato

La copertina del libro

La copertina del libro

Di Giambattista Pepi. I meridionali non rispettano le regole. E’ un pregiudizio: in realtà l’emergenza Coronavirus è stata uno straordinario test collettivo e ha mostrato comportamenti omogenei sul territorio nazionale, certificati da Google nella riduzione degli spostamenti. Il Mezzogiorno non decolla nonostante l’intervento straordinario. Scorretto: la banca dati pubblica attiva dal 2000 dimostra che il Sud riceve quasi sempre (18 anni su 19) una quota proporzionalmente inferiore alla popolazione residente. Non solo non c’è stato nulla di straordinario, ma si è anche investito per allargare il divario.Il Sud è terra di evasori fiscali. Paradossale: la pressione fiscale e contributiva è maggiore nel Mezzogiorno a partire dal 2014. Nel 2018 è stata del 46,7% al Centronord e del 47,8% nel Mezzogiorno.

I dipendenti pubblici meridionali sono improduttivi e assenteisti. Fuorviante. La macchina pubblica del Mezzogiorno riceve minori investimenti e meno beni e servizi: per questo il personale appare meno produttivo. Quanto alle assenze, in effetti si registrano in media due giorni di malattia in più all’anno per dipendente. Fenomeno da non sottovalutare, ma non tale da far gridare allo scandalo.

Superiamo la spesa storica per combattere gli sprechi del Sud. Truffaldino: la spesa storica al Sud è più bassa per cui, invece di integrarla, si è deciso di misurare i fabbisogni standard per il futuro in base alla spesa del passato. In un comune non ci sono asili nido? La spesa era zero per cui il fabbisogno di asili nido è zero.

Luoghi comuni, notizie infondate, bufale che nel libro Fake Sud (Piemme, 311 pagine, 15,90 euro) Marco Esposito smaschera una per una grazie a un impressionante repertorio di dati, storie e documenti.
Ci sono due Fake Sud: quello infido, sprecone e fannullone accusato di ricevere (mai visti) fiumi di sussidi e di rallentare le aree più produttive del Paese, e quello di chi – per reazione – alimenta un orgoglio inconcludente e vittimistico e si inventa una terra di impareggiabile ricchezza derubata dopo la feroce invasione piemontese del 1861. Ma poi c’è anche il Sud reale, in cui dilagano disoccupazione ed emigrazione, la sanità è sempre a corto di personale, i comuni non hanno soldi per i servizi, i fondi europei sono usati per compensare i tagli ai finanziamenti ordinari e l’alta velocità ferroviaria si è (letteralmente) fermata a Eboli. Perché i pregiudizi non sono innocenti, sono serviti a giustificare scelte politiche devastanti per il Mezzogiorno. Non è solo dai pregiudizi che portano all’errore, dalle prevenzioni intrise di razzismo, o dalle insinuazioni menzognere, che i meridionali si sentono  mortificati, quanto piuttosto dal non avere tuttora fatto i conti con il passato della nostra storia, sul non avere fatto piena luce sui retroscena della “colonizzazione” del Mezzogiorno, sulle ombre del nostro Risorgimento, nell’omertà e nella sottovalutazione delle responsabilità politiche e morali del suo sacrificio, prima, sull’altare degli interessi capitalistici e finanziari delle élite al potere e, successivamente, a quelli politico- clientelari e mafiosi.

Fin dalla seconda metà degli anni settanta dell’Ottocento, il Mezzogiorno, ancorché obbligato, era stato altamente funzionale, se non addirittura essenziale, allo sviluppo dell’industria settentrionale e dell’intera economia nazionale fino alla Seconda guerra mondiale. Tuttavia l’arretratezza accumulata dal Sud a causa dello sviluppo capitalistico nazionale garantito dal protezionismo, mentre si rivelò disastroso per le produzioni agricole di eccellenza (non per il latifondo nonostante la riforma agraria che pure attraverso la “legge Sila” e la “legge stralcio” assestò un duro colpo alla proprietà terriera assenteista) che furono oggetto di ritorsioni soprattutto dalla Francia, si trasformò in un fattore di grave rallentamento della stessa economia settentrionale.

La legislazione speciale a favore delle regioni meridionali varata dal Governo Giolitti all’inizio del XX secolo che cercò di ridurre il divario già ampio allora tra il Nord e il Sud del Paese, derivò soprattutto dalle analisi che venivano condotte dai meridionalisti del tempo e, in particolare, da Francesco Saverio Nitti, che denunciarono le condizioni di arretratezza economico-sociale del Mezzogiorno (dopo i precedenti studi dello storico Pasquale Villari e l’Inchiesta sulla Sicilia condotta da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino che già era stata oggetto di un’indagine parlamentare approdata ad una valutazione estremamente prudente sui mali che la caratterizzavano) e proposero di intervenire senza altri indugi per riequilibrare lo sviluppo economico tra le due macro aree del Paese.

Per quanto apprezzabili, i risultati della legislazione speciale, fra cui la costruzione dell’impianto siderurgico di Bagnoli a Napoli, l’acquedotto pugliese, la direttissima Roma-Napoli, non ridussero però, né tanto meno annullarono il divario Nord-Sud. Le necessità belliche della Prima guerra mondiale, le successive politiche di restringimento degli scambi di merci e risorse umane affermatesi a livello mondiale tra gli anni Venti e Trenta, le scelte di politica demografica del fascismo e infine la Seconda guerra mondiale e la ricostruzione agirono tutte in modo che alla fine degli anni Quaranta del Novecento il dislivello economico Nord-Sud raggiungesse i suoi massimi storici. Alimentando una seconda ondata migratoria, dopo quella imponente che dal 1870 allo scoppio della Prima guerra mondiale aveva interessato ben cinque milioni di individui che avevano cercato fortuna in America e, in parte, in Europa.

La classe dirigente post – unitaria e quella dei primi decenni del Novecento ha condannato il Mezzogiorno all’emarginazione, all’impoverimento e all’emigrazione.

Pur con tutti i suoi limiti e le sue manchevolezze, con la  Cassa per gli interventi straordinari, tra gli anni Cinquanta e Settanta, il Mezzogiorno aveva rivisto la luce e risalito la china dell’arretratezza, ma poi quando si decise di sopprimere questo strumento,  per quasi un decennio il Sud sparì dall’agenda politica del Paese. Ed il divario tornò ad ampliarsi al punto da diventare un “caso” perfino per l’Unione Europea, dal momento che il Sud Italia è la macro area all’interno dell’UE ad accusare il divario più ampio tra quelle in ritardo dal punto di vista economico, sociale e occupazionale.

Per oltre un secolo e mezzo, il Mezzogiorno è stato e, in gran parte, continua ad essere ancora oggi, un’area di consumo delle produzioni delle industrie del Nord, un “serbatoio” elettorale da cui drenare il consenso per ottenere e consolidare il potere della classe politica che di volta in volta si è proposta al Sud con le sue ricette “miracolose” quanto inutili, di rilancio con la complicità degli ascari eletti nelle regioni meridionali, e, infine, una zona alla quale sottrarre braccia e cervelli da formare, prima, nelle Università settentrionali e, poi, avviare al lavoro, sempre al Nord.

La verità è, dunque, che il Sud è stato lasciato solo. Colpevolmente solo. E, per giunta, come dimostra l’autore del libro, viene coperto da contumelie, biasimo, scherno, irrisione, ed è oggetto di pregiudizi falsi e di un razzismo immondo.

Il fatto di dover ancora oggi discutere di cosa fare del Mezzogiorno, in che modo e con quali strumenti intervenire per favorirne lo sviluppo e il rilancio, come mettere a reddito le sue pur notevoli risorse,  rappresenta secondo noi la sconfitta più grande che lo Stato italiano abbia mai subito nel corso della sua lunga storia.

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12 Responses to Uno sguardo inedito su un dramma antico. Ecco le bufale che avvelenano il Mezzogiorno, ma il Paese non ha ancora fatto i conti con il suo passato

  1. Giorgio Fieramosca scrive:

    Molto interessante , ma non c’e nemmeno una riga sul peso devastante delle mafie nella economia meridionale. Pare che non esistono

    E nemmeno una parola sul fatto che alcune regioni non sono state in grado di spendere i ( pochi ) fondi ricevuto

    Cordialmente

    G. Fieramosca

    • Giambattista Pepi scrive:

      Signor Fieramosca,
      lei ha ragione, ma le osservazioni vanno poste all’autore, non a me, che mi sono limitato a recensire il libro.
      Vive cordialità
      G. Pepi

  2. marco marchi scrive:

    Il Sud è stato lasciato solo da chi ? Forse da chi lo ha governato? E quale è il ” Sud” ?
    Quando io attraverso il confine tra la Campania e l’Abruzzo entro in un altro mondo –
    L’Abruzzo non è sud? La Puglia non è Sud ? come mai tanta differenze anche in termini di benessere (o relativo benessere) economico ? Io ho una sola risposta : dove c’è chi governa decentemente i problemi sono minori rispetto a dove si governa male. E’ il segreto di Pulcinella. La sconfitta dello Stato Italiane nel Sud ( e non solo al Sud ) è cominciata quando si sono delegati troppi poteri ai potentati locali. Poi qualcuno ha avuto la fortuna di avere amministratori migliori di altri .. M/ MARCHI

    • Giambattista Pepi scrive:

      Signor Marchi,
      lei ha ragione nel porre tutto queste domande. Il problema dell’arretratezza socio-economica del Mezzogiorno e, a suo tempo, di altre aree del Paese anche dopo l’unificazione politica (1861) è storico: sono trascorsi oltre 170 anni e il divario non solo non è stato colpato, ma è aumentato. Le colpe forse sono un po’ di tutti: anzitutto della classe dirigente nazionale e locale, che nel suo insieme (senza mancare di rispetto a personaggi illuminati come Giolitti, Spadolini, Moro che ebbero felici intuizioni e si batterono per invertirne la direzione e la sorte) non ha saputo fornire le risposte che legittimamente si attendevano le popolazioni meridionali. Non ci sono state solo ombre, ma anche qualche luce nelle politiche di riequilibrio e coesione del Sud: lo si fece con la Cassa per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, che, sia pure con tutti i suoi limiti, tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso, consentì di recuperare parte del divario in termini di Pil, reddito, produttività. Poi la sua soppressione, e la cancellazione del Sud dall’agenza politica del Paese per quasi un decennio, fece tornare indietro il Sud: oggi è un’area di consumo, più che di produzione, un serbatoio di consensi elettorali, più che di decisioni. E questo ha pesato e pesa tuttora nella possibilità di invertire il secolare trend negativo che caratterizza il Sud.
      Cordiali saluti
      G. Pepi

  3. marco marchi scrive:

    Grazie per la risposta ma sono convinto, ora più di prima , che il problema e’ iniziato, in tutta Italia, quando sono state istituite le Regioni , quando lo Stato ha ceduto parte delle competenze e poteri alle Regioni. Da allora il Pil dell’Italia e’ crollato restando sempre intorno all’1% – E ovvi che le Regioni meglio strutturate hanno speso meglio i finanziamenti che ricevevano. E’ ovvio che dove c’era una economia abbastanza solida il crollo è stato meno vistoso. Il Sud ha ricevuto meno soldi ? forse. Ma salvo qualche lodevole eccezione li ha spesi male e qualche volta non li ha spesi . Ma la Regione Autonoma Siciliana non ha saputo fare quello che ha fatto la Regione Autonoma Sardegna . E allora non è un problema geografico , ma di ” manico ” Come mai gli imprenditori privati investono in Sardegna e disinvestono dalla Sicilia ( e non solo) ? C’e qualche imprenditore che oggi ha il coraggio di investire in Calabria ? nemmeno i Calabresi lo fanno !!!

    • Giambattista Pepi scrive:

      Gentile signor Marchi,
      le regioni a statuto ordinario sono state istituite con l’articolo 22 della Costituzione della Repubblica entrata in vigore il 1° gennaio 1948.Nonostante la previsione costituzionale fino al 1970 le regioni italiane non sono di fatto esistite perché per lungo tempo non sono state adottate le leggi che permettevano alle regioni di cominciare a funzionare, ovvero le leggi dell’elezione del consiglio regionale. L’inerzia del legislatore fu dovuta principalmente a ragioni politiche: i governi prevalenti allora serrano formati dalla DC che temeva la possibile vittoria di forza politiche di sinistra in alcune regioni italiane e le conseguenti possibili frizioni con il governo centrale (le regioni del Centro-Nord erano simpatizzanti del Partito comunista). Nel 1968 sono state adottate le prime leggi per l’elezione dei consigli regionali, la gente è così andata a votare e le regioni hanno preso vita dal punto di vista dei loro organi politici, nel 1970 sono state adottate le leggi che hanno attribuito alle regioni competenze legislative e amministrative. Fatto ciò ha avuto inizio in Italia un processo di decentramento, cioè di attribuzione di competenze sempre maggiori alle regioni; il decentramento è avvenuto attraverso 3 tappe temporali tra il 1972 e il 1997. Di fatto fino al 1997 la maggior parte dei poteri rimaneva nelle mani dello Stato che, adducendo diverse motivazioni, si ingeriva spesso nelle competenze affidate alle regioni. Poi intervennero le leggi Bassanini che introdussero il “federalismo amministrativo a Costituzione invariata”. Le leggi Bassanini sono il riflesso di spinte venute dall’esterno, cioè dall’Unione Europea, poiché essa aveva istituito un sistema di aiuto per le regioni chiamato “fondi strutturali”.In realtà fino a quell’anno le regioni non avevano affatto le competenze di oggi. Fino al 1992 il Pil dell’Italia era stabilmente sopra il 2 per cento. E’ con l’ingresso nell’Unione Economia e Monetaria europea (UEM) che si è progressivamente contratto fino a giungere all’1 per cento annuo, circa un punto in meno della media degli Stati UE che hanno adottato l’euro. Il problema dell’arretratezza è storico, nel senso che ne rinveniamo le cause principali nelle politiche protezioniste adottate dai primi governi postunitari dal 1870 in poi, che hanno consentito lo sviluppo delle industrie del cosiddetto triangolo industriale Milano-Torino.Genova, a discapito del Sud, dove vigeva il latifondo improduttivo ma redditizio per i proprietari fondiari e dove il bracciantato viveva in una condizione di estrema povertà quando non di indigenza. Industriali del Nord e latifondisti del Sud erano di fatto d’accordo a mantenere lo statu quo dell’economia così come era allora. Questa oligarchia era sempre più ricca, e le classi politiche del tempo ne erano condizionate e li assecondavano. Questo ha portato all’emigrazione di massa di 8 milioni di persone del Sud verso le Americhe tra il 1870 e il 1914. Il fascismo, la Seconda guerra mondiale, la ricostruzione sono state fasi drammatiche e convulse durante le quali il Sud ha sistematicamente ricevuto poca e scarsa attenzione da parte dello Stato centrale. Si è cominciato a porre rimedio alle divergenze socio-economiche con la legislazione sociale, la riforma agraria e alcune opere avviate durante i governi di Giolitti e poi nel Secondo dopoguerra con gli investimenti strategici attraverso la Casmez. Poi abolita la Cassa, c’è stato il buio.
      In realtà l’Italia avrebbe dovuto fare come fece la Germania dopo la sua riunificazione politica, una volta caduto il Muro di Berlino con investimenti sistematici negli ex Lander della DDR. In venti anni, il reddito, il Pil e il tasso di disoccupazione sono equiparabili ai Lander dell’ex Germania dell’Ovest. La Germania ha dunque impiegato circa vent’anni a recuperare il divario tra Ovest ed Est, mentre il nostro Stato (dagli anni Novanta con le Regioni), in oltre 170 anni, non solo non ha superato lo squilibrio socio-economico tra le regioni del Sud (Sardegna compresa) e quelli del Centro-Nord, ma questo divario è rimasto e si è addirittura aggravato.
      Non è vero poi che il Sud non sa spendere le risorse che riceve, dal momento che vengono tutti regolarmente rendiconti e certificati, il fatto è che gli esiti degli investimenti europei sono mediocri per due ragioni: sono sostituitivi di investimenti ordinari e sono frammentati nella gestione, sia tra ministeri, sia sui territori. E siccome l’UE sa bene dove si trova il “nodo” del mancato decollo del Sud, non è un caso che ha imposto allo Stato italiano che i fondi che le saranno assegnati con il Recovery Plan (209 miliardi di euro) dovranno essere investiti per il 43% nelle regioni del Sud a ritardo di sviluppo.
      Cordiali saluti
      G. Pepi

  4. Nobili scrive:

    Discussione interessante alla quale vorrei dare un contributo
    a) L’emigrazione in Italia inizia massicciamente alla fine dell’800 , 40 anni dopo l’Unità e fu ben piu’ massiccia dal centro nord che dal centro sud ( dati Istat e Abstract of European Historical statiscs , Cambridge 1975 p. 135 )
    b) Dall’Europa Centrale il flusso migratorio inizia prima e il fenomeno è molto più importante di quello Italiano al punto che il Governo Austriaco fa di tutto per scoraggiarlo . L’Emigrazione dalla Germania agli Stati Uniti riduce del 30% gli abitanti della regione dell’Oldeburg . Nel periodo 1850 -1880 emigrano tre milioni di tedeschi . L’Austria emette una ” Normativa ” con decreto del 24 Marzo 1832 nella quale definisce ” emigranti ” persone che espatriando recavano danno allo Stato — A Fine secolo , con l’avvento delle grandi navi a vapore , viene aperta una linea da Fiume a N.Y . che si aggiunge a quelle gia’ esistenti da Brema , Havre , Anversa, Rotterdam e Amsterdam ( Transatantic Shipping cartels and emigration between America and Europe ” Essays in Economic and Busness History by DREW KEELING
    b) l’Industrializzazione del nord coincide con la Grande Guerra , con ovvi motivi che e’ inutile elencare
    c) Il Meridione non ha bisogno di industrializzazione. Ha bisogno di un buon governo che valorizzi le sue risorse naturali e storiche . Questo non e’ avvenuto perche’ non ha una classe politica all’altezza
    d) Non esiste solo lo Stato per gli investimenti. Molto meglio dello Stato fanno i privati . Che pero’ sono scoraggiati ad investire in Italia in generale e nel meridione i particolare . E’ molto piu’ difficile fare impresa a Catanzaro che a Trieste . Ma lo stesso si puo’ dire tra Palermo e Bari .Dunque il problema non è il passato , ma il presente

    Cordialmente

    M. Nobili

    • Giambattista Pepi scrive:

      Buon pomeriggio signor Nobili,
      il suo contributo è molto interessante: fa capire che il problema dell’emigrazione per necessità non ha interessato solo l’Italia, ma anche altri Paesi dell’Europa.
      Quanto alle altre osservazioni, penso che già adesso abbiamo delle imprese di medie e piccole dimensioni (ce ne sono anche grandi, sebbene siano poche) eccellenti. Se ce ne fossero molte di più il cui business fosse centrato sulle valorizzazioni degli immensi giacimenti culturali di cui dispone il Mezzogiorno, creeremmo sicuramente ricchezza, sviluppo e occupazione per altro rispettose dell’ambiente, della natura, della storia e delle mostre migliori tradizioni.
      Peccato che, dopo la Cassa per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, non ci siano state politiche statali mirate a dotare i territori del Sud di quelle infrastrutture e di quei servizi che li rendessero realmente e stabilmente attraenti per gli investimenti. Se fosse avvenuto oggi parleremmo di un altro Mezzogiorno, che non dovrebbe più assistere all’emigrazione di migliaia di studenti che vanno a formarsi nelle Università del Nord e di lavoratori che vanno a lavorare nelle regioni settentrionali quando non all’estero. In questo modo, privato di tanti talenti che lo potrebbero altrimenti arricchire, il Sud si è impoverito: le loro famiglie che hanno fatto tanto sacrifici anche economici per educarli, istruirli, formarli, con dedizione e amore, li vedono andare via e, forse, sarà per sempre perchè difficilmente torneranno indietro.
      Cordiali saluti
      Giambattista Pepi

  5. Giorgio Fieramosca scrive:

    Onestamente tra l’analisi del Prof Terracciano e quella dell’autore del libro preferisco la prima. Marco Esposito ha assolto di tutte le colpe egli errori una classe polica che in gran parte è stata nefasta

    http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2597:sulle-cause-dell-emigrazione-meridionale-giovanile&catid=72&Itemid=108

    • Giambattista Pepi scrive:

      Signor Fieramosca,
      concordo con lei: penalizzare il Sud è stata una scelta sia dei Governi post unitari durante il Regno d’Italia, sia dei Governi della Repubblica nel Secondo dopoguerra. Salverei solo gli interventi fatti dal Governo di Giovanni Giolitti nel tentativo di riequilibrare le già forti divergenze nello sviluppo socio-economico tra Nord e Sud e, dagli anni 50 fino ai 70, gli interventi effettuati attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, che finanziò investimenti strategici in infrastrutture essenziali, sia pure tra molti limiti e manchevolezza che pure ebbe la Casmex, poi abolita.
      Cordiali saluti
      G. Pepi

  6. raimondo scrive:

    In tutta la conversazione non c’è nemmeno un accenno alle responsabilità locali. Parrebbe che non esistono nemmeno i Governi Regionali. Non un solo numero per dimostrare che i quattrini ricevuti sono stati spesi tutti e bene.
    Nessuno vuole nascondere le colpe dei governi centrali, ma quelli regionali esistono , costano e hanno poteri. Che fine a fatto e chi gestisce la riconversione di Bagnoli? eppure di soldi ne sono stati spesi. E tanti.

    • Giambattista Pepi scrive:

      Certamente le autonomie territoriali (Regioni, Province e Comuni) hanno avuto le loro responsabilità nel malgoverno del Mezzogiorno. Ma le politiche economiche fanno capo al Governo centrale. In ogni caso, le sue osservazioni, condivisibili, andrebbero rivolte all’Autore del libro, più che a me che mi sono limitato a recensire il libro su queste colonne, senza alcuna pretesa di poter riassumere gli argomenti sulla problematicità della questione dell’arretratezza socio-economica del Mezzogiorno e dei luoghi comuni e delle false notizie che vengono fatte circolare ad arte su di esso.
      Cordiali saluti
      G. Pepi

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