G20 e Trade War: incontro Xi-Trump, esito incerto anche in caso di accordo. La Fondazione Italia Cina lancia l’allarme: le imprese italiane pretendono che sia difesa la loro libertà commerciale ed imprenditoriale

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump e il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump e il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping

Milano, 27 giugno – In occasione del G20 di Osaka (28-29 giugno) è previsto un incontro fra il Presidente statunitense Donald Trump e il Presidente cinese Xi Jinping. L’oggetto della conversazione sono le negoziazioni commerciali tra Stati Uniti e Cina. Dopo mesi di tensioni, l’appuntamento giapponese è stato preceduto dall’annuncio americano che i nuovi dazi, previsti a partire dal 1° di luglio, sono stati congelati in attesa proprio degli esiti del G20. 
Nonostante le aperture, l’esito del summit è molto incerto, rendendo possibili contemporaneamente scenari di accordo, rottura o rinvio. In ogni caso, la natura strutturale dei temi economici oggetto di contrasto fa comunque presagire il prosieguo nel medio-lungo periodo di una situazione di forte confronto anche in caso di eventuale accordo raggiunto a Osaka.

“La comunità imprenditoriale italiana è preoccupata per la confusione che questo negoziato sta generando – afferma Vincenzo Petrone, Direttore Generale della Fondazione Italia Cina –. In tema di obiettivi, si sta trattando sul commercio, sul capitalismo di Stato cinese o sugli scontri tecnologici? La richiesta urgente da parte delle aziende italiane è quella di concentrarsi per ora sulle tariffe, sulla libertà di commercio e sulla libertà di fare impresa in Cina”.

Nonostante venga spesso definita “guerra commerciale”, il tema della rivalità tecnologica tra le due superpotenze riveste un ruolo di primissimo piano nelle tensioni tra Washington e Pechino. Al di là del tentativo americano di ridimensionare il deficit commerciale con la Cina, che nel 2018 ha raggiunto i 382 miliardi di dollari, gli Stati Uniti lamentano da tempo l’utilizzo da parte di Pechino di strumenti amministrativi e politici scorretti, al fine di ottenere un vantaggio tecnologico sui competitor internazionali e americani. Problemi quali il trasferimento tecnologico forzato e il mancato rispetto della proprietà intellettuale sono stati aspramente criticati da Trump in occasione dei vari round negoziali; tuttavia, poche restano le concessioni fatte finora dalla Cina su questo fronte. Questi temi risultano infatti particolarmente sensibili per Pechino, in quanto fanno direttamente capo al suo modello di sviluppo e ai suoi obiettivi di lungo periodo. Discuterli rischia pertanto di mettere in discussione la legittimazione stessa del PCC e della strategia di crescita del Paese, una strategia che si basa sul forte dirigismo statale e sulla protezione delle imprese cinesi dalla concorrenza internazionale.

Con la motivazione di voler controllare il flusso di informazioni proveniente dall’esterno, la Cina ha per più di dieci anni eretto una barriera tra il mercato digitale interno e quello internazionale. In questo contesto, la compagnia di telecomunicazioni Huawei è recentemente entrata nel mirino di Trump per la sua eccessiva vicinanza al Governo cinese, venendo quindi ad essere percepita come una minaccia non solo per le aziende americane, ma anche per la sua sicurezza interna del Paese.

BLACK LIST TECNOLOGICA - Il 15 maggio scorso, dopo varie minacce, il Presidente Trump ha infine deciso di iscrivere l’azienda di comunicazione nella “Entity List”, una lista nera di aziende che hanno restrizioni all’acquisto di tecnologia di provenienza americana. Pochi giorni dopo l’ordine esecutivo di Trump, Google ha annunciato l’esclusione di Huawei dai futuri aggiornamenti Android e da applicazioni quali Gmail o Google Play. In questo caso però, il Dipartimento del Commercio Americano è intervenuto concedendo tre mesi di licenza temporanea per usufruire dei servizi e degli aggiornamenti da parte dell’azienda di Mountain View. Oltre a Huawei altre 5 tech companies cinesi hanno ricevuto il divieto di acquisire componentistiche americane, tra le quali si annoverano Higon, Sugon, e Chengdu Haiguang Integrated Circuit. Inoltre, è lecito aspettarsi future restrizioni anche nei confronti delle compagnie cinesi di servizi di sorveglianza e di identificazione facciale quali Hikvision e Sensetime.

TERRE RARE E SEMICONDUTTORI - In reazione alle sanzioni americane contro Huawei, il Governo di Pechino ha minacciato il bando delle proprie esportazioni di terre rare verso gli Stati Uniti. Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi chimici, fondamentali per l’industria tecnologica, sui quali la Cina gode un netto vantaggio, trattandosi del primo produttore (come si evince dal grafico sotto riportato) ed esportatore mondiale. L’effettiva efficacia di questa minaccia, però, è discussa. Sebbene possa avere un effetto immediato, nel medio periodo gli altri Paesi potrebbero utilizzare in maniera più efficace le proprie riserve e ridefinire i processi produttivi. Pechino aveva già utilizzato lo strumento della limitazione delle esportazioni durante un contrasto di confine con il Giappone nel 2010, portando gli altri Paesi a ridurre la quota cinese. Nell’ambito delle tensioni commerciali rientra anche la decisione cinese di stilare una black list di aziende americane che violerebbero le regole di mercato portando avanti decisioni motivate politicamente, come ad esempio l’esclusione di Huawei da accordi commerciali. Secondariamente, è importante notare che, se la Cina primeggia in questo campo, essa risulta tuttavia scoperta sul fronte dei semiconduttori, quanto mai fondamentali per il settore delle innovazioni industriali, come la produzione di macchine elettriche. Secondo alcune fonti, circa l’85% dei semiconduttori attualmente utilizzati da Pechino verrebbero infatti importati dall’estero, in particolare dagli Usa, rendendo la Cina a sua volta esposta alle possibili ritorsioni americane.

L’Europa nel mezzo. Quella della Trade War Usa-Cina è una partita in cui l’Europa è relegata al ruolo di spettatrice, consapevole però che il risultato finale avrà un forte impatto sull’economia e sul commercio comunitario. Da un lato la tensione commerciale tra Pechino e Washington ha contribuito fortemente al rallentamento di molte economie europee e dall’altro la possibilità che il raggiungimento di un accordo preveda maggiori import in Cina di prodotti americani indebolirebbe la posizione europea. Una recente analisi di Brookings mostra infatti come la volontà di Trump di ridurre il deficit commerciale con la Cina ad oggi sia stata raggiunta solo in parte e al costo di aumentare quello verso altri Paesi. Gli Usa potrebbero quindi prevedere in un futuro accordo commerciale con la Cina l’obbligo per Pechino di incrementare i suoi acquisti di prodotti americani, mettendo quindi in difficoltà diverse aziende europee che troverebbero così forti limiti nell’espansione commerciale in Cina.

L’EFFETTO SOSTITUZIONE- Come precedentemente indicato, all’ingresso in Cina i prodotti europei godono ora di un vantaggio comparato rispetto a quelli americani, a causa di misure tariffarie minori (6,7% di media vs. 20,7%). Va inoltre considerato l’effetto sostituzione: di fronte a prodotti Usa più costosi, necessariamente i consumatori e le industrie cinesi saranno spinti a rivolgersi a fonti alternative per tutti quei beni non prodotti in Cina. Uno studio dei primi mesi del 2019 condotto dall’UNCTAD, la Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, ha concluso che l’Europa potrebbe essere la principale beneficiaria di un inasprimento delle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina. La reciproca imposizione di dazi darebbe infatti un vantaggio alle esportazioni europee verso entrambe le destinazioni, con un beneficio stimato dall’UNCTAD intorno ai 70 milioni di dollari, pari a quasi l’1% del totale degli export europei. Il medesimo studio mette però in guardia su atteggiamenti troppi ottimisti: se infatti il fenomeno di trade diversion avrebbe effetti positivi, questa è solo una faccia della medaglia.

IL COSTO DEL RALLENTAMENTO CINESE. Per quanto riguarda le attività economiche in Cina va fatta un’ulteriore precisazione. Il vantaggio di breve termine arriverebbe comunque a spese di un rallentamento dei livelli di crescita della Cina e della sua capacità di investimenti. Per quanto non vi siano stati crolli di Borsa come auspicato da Trump, la guerra commerciale ha comunque impattato negativamente sul Pil cinese. Gli effetti su determinati settori, primo tra tutti il comparto automotive, sono stati infatti pesanti e in generale la Cina, già in un periodo di rallentamento strutturale dovuto alla fase di transizione dei modelli economici, ha ulteriormente ridotto la crescita proprio a causa dei dazi. Maggiori dazi significano anche meno reddito disponibile, oltre al rinnovato nazionalismo economico che porta i cinesi a preferire i prodotti nazionali ogni qualvolta sia possibile.

GLI EFFETTI SULLE AZIENDE EUROPEE. I benefici netti per chi opera in Cina, presenti nel breve periodo a causa della Trade War, si limiterebbero quindi sostanzialmente ai prodotti per i quali non vi sono sostituti locali (per mancanza di know-how o per la bassa qualità delle alternative cinesi). Un sondaggio condotto dalla Camera di Commercio UE in Cina conferma le conseguenze negative della Trade War sulle aziende europee che operano in Cina e negli Usa: il 38% delle imprese che producono in Cina hanno dichiarato di aver subito conseguenze negative, contro il 4% che invece ha ottenuto vantaggi dalla Trade War. A ciò si aggiungono poi i forti dubbi sul futuro espressi dalla quasi totalità dei soggetti intervistati. Va infine segnalato come diversi studi indicano i maggiori beneficiari europei in Francia e Germania, con l’Italia in una posizione più debole. Il ritardo italiano nel commercio con la Cina rispetto alle altre due grandi economie dell’Eurozona viene approfondito nel X Rapporto Annuale CeSIF appena pubblicato e che sarà presentato in Farnesina il prossimo 8 luglio.

 

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