Il nuovo totalitarismo manageriale che supera lo Stato e lo sostituisce con l’efficientismo aziendalista. Nel saggio Governance il politologo Alain Deneault denuncia l’ascesa della nuova arte politica senza governo che priva il popolo della libertà di decidere

La copertina del libro di Alain Denault

La copertina del libro di Alain Deneault

I termini inglesi corporate governance  o, più semplicemente, governance significano governo d’impresa o governo societario. Con queste parole si fa riferimento alle regole e ai processi con cui si prendono le decisioni in una società. Fornisce anche la struttura con cui vengono decisi gli obiettivi aziendali, nonché i mezzi per il raggiungimento e la misurazione dei risultati raggiunti. Ci sono diverse varietà di modelli di governo societario nel mondo.  Si distinguono in base al grado di capitalismo in cui l’azienda opera. Al modello liberale proprio degli Stati anglo-americani (Regno Unito, Stati Uniti d’America, Australia), si contrappone quello cosiddetto coordinato diffuso nell’Europa continentale  e nel Giappone che riconosce anche gli interessi di lavoratori, manager, fornitori, clienti e società. Entrambi i modelli godono di diversi vantaggi competitivi, ma in maniera diversa. Il modello liberale incoraggia l’innovazione totale e la concorrenza sui costi, mentre il modello coordinato favorisce l’innovazione qualitativa e la concorrenza di qualità.

L’interesse per i metodi di governo societario è cresciuto soprattutto nel corso del XX e XXI secolo  a causa del collasso di multinazionali come IBM, Kodak, Honeywell, WorldComn e Enron. Cadute rovinose causate da comportamenti irresponsabili, per non definirli criminali, tenuti dal management societario che hanno procurato danni ingenti agli investitori, un generale discredito nell’opinione pubblica e una sfiducia nei mercati.  Questi cattivi esempi di amministrazione di società private, da cui deriva l’accezione negativa del termine governance, ha portato alla messa in campo di programmi di corporate governance. In altre parole un modello di corretto governo societario, o, se preferite, per non perdere di vista il nostro termine, di buona governance,  basato su principi e valori etici e morali: onestà, fiducia, apertura mentale, orientamento ai risultati, responsabilità, rispetto reciproco e impegno nella società.

All’inizio degli anni Ottanta del Novecento – complice il Primo ministro inglese, Margaret Thatcher, soprannominata lady di ferro dalla cronaca del tempo per la durezza con cui  governò il Regno Unito –  questo termine è stato introdotto nella vita pubblica con il pretesto di affermare la necessità di una sana gestione dello Stato secondo modalità propri dell’efficientismo aziendale. Esso ha subito una mutazione semantica che implica una gestione neoliberale dell’organizzazione statuale, caratterizzata da deregolamentazione e privatizzazione dei servizi pubblici, oltre che in un richiamo all’ordine delle organizzazioni sindacali.

Negli anni successivi si è ricorso a questo sintagma per compiere quello che Denis Saint-Martin qualificherà come “colpo di stato concettuale”.

Dall’esperto di manipolazione delle masse Edward Bernays fino alla costituzione di una Commissione per la governance globale (codiretta dallo svedese Ingvar Carlsson e dalla guineina Shridath Ramphal e avallata dall’allora segretario dell’Onu, Boutros Boutros – Ghali) e del suo Our Global Neighbourhood, l’Istituto sulla Governance, una think tank di levatura internazionale con sede in Canada,  sono state diverse le tappe del processo volto a trasferire il modello di governance societaria nella gestione dello Stato moderno. La governance, infatti, non è soltanto un termine che indica la riforma delle istituzioni per soddisfare le necessità e i bisogni dell’impresa. E’ un’espressione volutamente indeterminata che esprime la nuova arte della politica “senza governo”, senza quella pratica, cioè, che presuppone una politica dibattuta pubblicamente.

Alain Deneault, nel libro dal titolo Governance. Il management totalitario (Neri Pozza, 187 pagine, 16,00 euro) mostra la conseguenze di questa radicale trasformazione della gestione governativa: la politica muore e si muta in “un’arte della gestione” in quanto tale, priva di ogni registro discorsivo. “Nessuna agorà è richiesta per discutere del bene comune – scrive il filosofo canadese che insegna Scienze politiche all’Università di Montréal e collabora con la rivista Liberté. “Questo fenomeno è tristemente corroborato dalla monotonia del discorso politico e dalla mediocrità dei partiti politici di governo”. Pur essendo apparentemente inoffensivo, il termine governance ha conseguenze nefaste perché cancella il nostro patrimonio di riferimenti politici per sostituirli con quelli tendenziosi del management. “Ogni materia – avverte Denault – ruoterà d’ora in poi attorno a sfide gestionali, divenendo così il modello di ogni politica. La perversione è totale”.

In pratica la governance come tecnica e modello gestionale prendo il posto della cultura politica, si sostituisce ad essa, riplasma lo Stato come presidio degli interessi economici. “Gli esperti della buona governance – dice Denault – si limitano allora a postulare il possesso di una facoltà che li metta in grado di padroneggiare l’esercizio tecnico del potere politico, di inculcare nei cittadini l’arte di pronunciarsi sugli affari pubblici in funzione di interessi adattati alle congiuntura e di imporre le modalità attraverso le quali prendere le decisioni afferenti”.

Nel ragionamento di Denault, lo Stato “ridefinito secondo il principio latente della governance, acquisirà la funzione principale di legittimare le modalità di funzionamento dei potenti che lo porteranno quindi ad intervenire il meno possibile di sua iniziativa negli affari del mondo”. La governance insomma consiste così nel nominare il nuovo ordine politico che deve disegnarsi al di là dello Stato, ma, più che per istituzionalizzare un ordine comune, per mettere i popoli ulteriormente fuori dalla portata di strutture pubbliche attraverso le quali essi potrebbero cercare di costituite sovranamente la propria soggettività storica”.

Giambattista Pepi

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