L’Italia torni a Keynes. Senza deficit non può esserci una forte crescita. Intervista con l’economista Giuseppe Vitaletti

Giuseppe Vitaletti è professore ordinario di Scienza delle finanze all’Università di Viterbo (Tuscia). E’ stato consigliere dei Ministri Rino Formica, fino al 1990 e Giulio Tremonti, fino al 2004. Presidente dell’Alta Commissione per il Federalismo fiscale (2003-06), Vitaletti è componente del Collegio dei Sindaci dell’Inps.

Giuseppe Vitaletti è professore ordinario di Scienza delle finanze all’Università di Viterbo (Tuscia). Presidente dell’Alta Commissione per il Federalismo fiscale (2003-06), Vitaletti è componente del Collegio dei Sindaci dell’Inps.

Dopo 9 trimestri di contrazione, durante i quali il Pil ha perduto oltre 8 punti percentuali, il quarto trimestre ha segnato una crescita dello 0,1%. E’ l’inizio della svolta?

“E’ molto prematuro parlare di svolta. Primo perché la crescita zero non segna una svolta e poi perché l’arresto della caduta del Pil è stato ottenuta con un incremento delle materie prime intermedie, che non depone molto a favore dello sviluppo.

Le sue previsioni non sono ottimistiche?

“Non faccio previsioni, ma analizzo fatti. La realtà interpretata correttamente ci dice che l’Italia ha conosciuto il vero sviluppo soltanto quando c’è stato deficit pubblico. Fino al 2000. Dal 2000 al 2008 la crescita è stata lentissima, tra lo zero o l’1%. Dopo il 2008 c’è stata la catastrofe. Con il Governo Monti in particolare l’economia italiana è calata moltissimo. Questa è la realtà dei fatti”. 

In altre parole lei sostiene che per tornare a crescere la strada maestra è quella del deficit pubblico?

“E’ necessario. Quello che è successo è frutto di un discorso insensato. Noi fino agli anni Ottanta insegnavamo, secondo la teoria dell’economista Maynard Keynes, la necessità del deficit pubblico per fare crescita. Invece, per il fatto che il deficit pubblico alimenta il debito e che il debito alimenta gli interessi, si è detto che occorreva eliminare il deficit pubblico. Si diceva in particolare che il deficit pubblico era causato dalla classe politica che voleva spendere più di quello che si poteva ottenere dalle entrate. Questa è la causa della catastrofe del mercato interno italiano; del 40% di disoccupazione giovanile; dello sviluppo pari a zero”.

John Maynard Keynes, primo Barone Keynes di Tilton (Cambridge 5 giugno 1883 – Firle, 21 aprile 1946), è stato un economista britannico, padre della macroeconomia e considerato uno dei più grandi economisti del XX secolo.

John Maynard Keynes, primo Barone Keynes di Tilton (Cambridge 5 giugno 1883 – Firle, 21 aprile 1946), è stato un economista britannico, padre della macroeconomia e considerato uno dei più grandi economisti del XX secolo.

Questo scenario generale che sta caratterizzando la vita economica dell’Italia alimenta scetticismo e sfiducia. Su questi sentimenti allignano demagogia e populismi. L’euro è sotto scopa e anche la BCE perché non emette moneta.

“Queste sono analisi che vanno per la maggiore, per carità, ma sono totalmente infondate. L’Italia, paese centrale dell’Europa, è in crisi perché ci hanno imposto il pareggio di bilancio, e un rapporto deficit – Pil al 3%, mentre la Francia ha un rapporto tra deficit e Pil sul 5% e la Spagna viaggia su livelli analoghi. Il problema della nostra crisi va rintracciato nei parametri del trattato di Maastricht.

Che fare?

“Occorre rinegoziare gli accordi di Maastricht, dunque i suoi parametri quanto a deficit e debito, non uscire dall’Europa o rinunciare all’euro. Se non si rivedono queste regole che ci ingabbiano noi non avremo una ripresa, e, se mai ci sarà, non sarà una ripresa né solida, né duratura. Il deficit è necessario all’economia italiana, senza farsi umiliare dalla Germania, che ha un avanzo del settore beni e servizi della bilancia dei pagamenti pari al 7% del loro Pil. Il 7% equivale ad un deficit pubblico di pari ammontare”.

Con il Governo Renzi cambierà qualcosa? C’è una comprensibile attesa di vederlo all’opera. Tra le prime misure annunciate il taglio del cuneo fiscale, la revisione delle prime due aliquote Irpef, l’armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie. Pagare i debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese. Che ne pensa?

“Francamente mi sembra assai poco. Il taglio del cuneo fiscale si riduce ai 10 miliardi di riduzione dell’Irap, che peraltro è difficile da finanziare. Lo stesso discorso vale per la riduzione delle prime due aliquote dell’Irpef. L’aumento della tassazione delle rendite finanziarie va bene, ma in prospettiva occorre incidere assai più profondamente, e con una diversa ottica.”

Giuseppe Vitaletti è professore ordinario di Scienza delle finanze all’Università di Viterbo (Tuscia). E’ stato consigliere dei Ministri Rino Formica, fino al 1990 e Giulio Tremonti, fino al 2004. Presidente dell’Alta Commissione per il Federalismo fiscale (2003-06), Vitaletti è componente del Collegio dei Sindaci dell’Inps.

Giuseppe Vitaletti

La ripresa in Europa è a geometria variabile: potrebbe cambiare qualcosa nella politica di osservanza dogmatica delle regole del Trattato di Maastricht, come preteso dalla Germania e dai suoi alleati,  considerato che la presidenza Ue nel 2014 sarà a guida prima della Grecia e poi dell’Italia?

“Gli italiani si sentono ingiustamente in colpa a causa di una politica europea folle che ci ha costretto al pareggio di bilancio nel 2013 (quando la Francia è sul 5% ed ha un deficit della bilancia dei pagamenti di 82 miliardi di euro e nessuno dice niente, perché è alleata della Germania) e che è causa del nostro sottosviluppo. Lo dicono i dati che le esportazioni vanno bene, e ciò significa che la nostra economia è competitiva. Non dicano bugie. Mentre il mercato interno è crollato. Gli Stati Uniti producono deficit e sono in sviluppo, la Cina è in sviluppo con un avanzo della bilancia dei pagamenti mostruoso, come la Germania. Quindi discutiamo di queste cose prime di parlare di crisi dell’euro. Non credo proprio che la Grecia sia in condizioni di poter far cambiare la rotta della politica dell’UE. L’Italia sì, a patto che si doti di una strategia corretta e la smetta di farsi mettere sulla graticola dalla Germania. Il Governo Letta parlava di approccio antirigorista, ed è un punto di partenza. Occorrerebbe però che si apra anche un dibattito pubblico serio tra gli economisti per far comprendere quanto avveniva in passato senza che nessuno osasse gridare allo scandalo. Negli anni Ottanta tutti insegnavamo all’Università che per fare sviluppo occorresse deficit”.

Gli interventi di quantitative easing delle banche centrali di Stati Uniti e Giappone hanno rilanciato le esportazioni e dunque lo sviluppo attraverso il deprezzamento delle loro monete. L’Italia e in genere tutti i Paesi aderenti all’Euro sono privi della leva monetaria per fare sviluppo. In questo senso la BCE non può intervenire sulla valuta. La macroregione europea non è meno competitiva non avendo questa possibilità?

“E’ vero quello che lei ha detto per Usa e Giappone, ma all’interno di questo scenario va detto che la politica espansiva è fatta aumentando il deficit, che è esattamente  il contrario di quello che fa l’Europa. Sulla politica monetaria è vero che la BCE non ha le stesse possibilità delle altre banche centrali, ma, come ha fatto e continua a fare, sta immettendo denaro in un circuito che va alle banche. Il problema è che le banche italiane che hanno preso in prestito dalla BCE un enorme quantitativo di miliardi a basso tasso di interesse, ne hanno poi depositato gran parte nella BCE, non lo hanno destinato all’economia reale. La politica monetaria con i prestiti della BCE di Draghi ha cercato di finanziare l’economia, solo che l’economia non ha ricevuto questa iniezione monetaria, perché c’è la paura della fuga dei depositi dei risparmiatori. Il problema di fondo è quello del deficit pubblico che deve essere alto per permettere lo sviluppo”.

Mario Draghi

Mario Draghi

In Europa dal 2015 per altro occorrerà dare attuazione al Fiscal Compact.

“Sì, si parla solo di quello, non del Patto per lo sviluppo che è fondamentale. Non ci si rende conto dell’antitesi tra pareggio di bilancio e patto per lo sviluppo”.

Se l’Italia conta davvero tanto per l’Europa, viene spontaneo domandarsi perché l’Italia finora non si è fatta sentire come avrebbe dovuto fare? E’ una questione di classe dirigente? Quanto pesiamo in Europa?

“L’Italia ha una propensione al risparmio elevatissima, il rapporto tra ricchezza e Pil è il più alto di tutti i Paesi. Il fatto che la ricchezza non conti per valutare quanto sia grande il debito di una nazione è una bestemmia della UE per la quale ciò che conta è il PIL. La nostra ricchezza pro capite è la più alta al mondo. Se si valutasse il debito in rapporto alla ricchezza allora scopriremmo che l’ammontare complessivo di beni patrimoniali, a monte di cui c’è stato risparmio degli italiani, è tra cinque e sei volte il nostro Pil. Essendo elevato il nostro risparmio, noi per crescere abbiamo bisogno di un deficit altrettanto elevato. Invece siamo costretti per via del rapporto tra debito pubblico e Pil un po’ più alto della media europea ad avere un deficit più basso della media. Questa follia viene portata avanti in un Paese, in cui è causa di una disoccupazione giovanile pari al  40%”.

Resta tuttavia un dato di fatto altrettanto incontestabile: il debito pubblico non si è fermato negli ultimi due anni. Anzi paradossalmente è continuato ad aumentare proprio durante i Governi Monti, prima, e Letta, adesso, fino a stabilire nuovi record. Il che vuol dire che la spesa pubblica è aumentata, meno intensamente rispetto al recente passato, ma è aumentata.

“E’ vero il debito pubblico si è portato in pochi anni dal 120 ad oltre il 130% del Pil. Questo è avvenuto in particolare durante il Governo Monti. La causa è la contrazione del Pil, motivata dai tentativi di riaggiustamento, e dall’aver dedicato risorse all’aiuto dei paesi come la Grecia. Il deficit pubblico ora è al 3%, ma sarebbe strutturalmente attorno allo 0% secondo l’UE, perché loro calcolano il deficit sul pieno impiego. Quindi se in Italia ci fosse il pieno impiego, ma non c’è, la situazione del bilancio sarebbe in pareggio. Cioè, non facciamo solo un discorso della spesa pubblica che cresce e delle imposte che crescono pure: entrambe devono scendere, così come deve essere contrastata con ogni strumento l’evasione fiscale. Ma si parla, si parla, ma non si fa niente. La soluzione è che il deficit pubblico va innalzato, il tasso di interesse va azzerato, e le imposte vanno abbassate: queste sono le direttrici di una politica alternativa, che ci farebbe uscire dalla crisi e ci riporterebbe sul sentiero della crescita. Tutto questo andrebbe negoziato con l’Europa. All’Italia basterebbe avere un deficit del 5 o del 5,5%, più o meno quanto la Francia, e già cominceremmo a risolvere il problema. Il fatto è che l’Europa con il Fiscal Compact pretende di portare il debito pubblico al 60% del PIL. Se attuato equivarrebbe alla fine dell’economia italiana”.

Parlavamo anche di revisione della spesa pubblica. Una chimera. Durante il Governo Monti con Giarda e Bondi, poi con il Governo Letta con Cottarelli. Risultati scarsi considerato che la spesa pubblica non diminuisce considerato il suo elevato valore sociale. La spesa pubblica serve a mantenere, a sussidiare, non solo a finanziare i servizi pubblici, coprendo inadeguatezze, inefficienze e deficit del nostro apparato pubblico a livello centrale e locale. Che ne pensa?

“La spesa pubblica ha due grandi componenti: la spesa per le pensioni, che era stata riformata già nel 1995 e che, per tale riforma, è sostenibile a partire dal 2040. Tuttavia è stata ulteriormente riformata, aumentando l’età pensionabile per tutti fino a 66 anni come ha fatto Monti, ingiustamente perché il problema era adeguare le pensioni in essere, in parte, alla riforma del 1995. Poi ci stanno le inefficienze, in particolare sui beni intermedi e sulla sanità. Non illudiamoci che migliorando un poco la spesa pubblica Cottarelli ottenga chissà quali risparmi e si risolva così il problema del nostro debito. Il problema, ripeto, è affrontare la questione del deficit: non è con un poco di spesa pubblica in meno o qualche entrata in meno, per quanto si tratti di cose buone, che si risolvono i nostri problemi”.

Ecco, dando per acquisiti i benefici che si produrrebbero ove si applicasse la teoria economica di Keynes, facendo leva sul deficit per stimolare lo sviluppo, cosa ritiene che manchi all’Italia per realizzare crescite robuste. Perché è da 20 anni che l’Italia ha una crescita piatta.

“Sì. E ciò si verifica proprio da quando sono entrati in vigore i parametri del Trattato di Maastricht. Prima del 2008 quando il limite invalicabile nel rapporto deficit – Pil era il 3%, e dal 2008 da quando si è passati allo 0%. Non diciamo queste frasi in astratto per favore. Da quando è partito l’apparato europeo. Prima l’Italia era in sviluppo e c’era una struttura pubblica molto più robusta di oggi e nessuno aveva niente da recriminare perché c’era sviluppo, lavoro e benessere. Non voglio passare per un sostenitore della politica keynesiana, dico solo che fino alla metà degli anni Ottanta di Keynes ne parlavano tutti, ora non ne parlano che pochi. Siccome il debito è diventato elevato, in più rispetto a Keynes, va azzerato con modaliktà fiscali il saggio di interesse. Discutiamo dell’architettura europea, poi del resto”.

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