L’Italia ce la può fare, ma deve cambiare passo. Intervista con l’economista Giorgio Lunghini


Giorgio Lunghini è professore di Economia politica nell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. È socio onorario dell’Associazione italiana per la Storia dell’economia politica. È membro di organi direttivi delle riviste “Economia politica”, “Rivista italiana degli Economisti”, “Rivista di storia economica”. Dal 1997 al 1999 ha fatto parte del Consiglio economico della Presidenza del consiglio dei ministri. È stato Presidente della Società Italiana degli Economisti. Ha ricevuto il Premio Saint Vincent per il Dizionario di economia politica e il Premio Napoli per il saggio Conflitto Crisi Incertezza.

Giorgio Lunghini è professore di Economia politica nell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. È socio onorario dell’Associazione italiana per la Storia dell’economia politica. È membro di organi direttivi delle riviste “Economia politica”, “Rivista italiana degli Economisti”, “Rivista di storia economica”. Dal 1997 al 1999 ha fatto parte del Consiglio economico della Presidenza del consiglio dei ministri. È stato Presidente della Società Italiana degli Economisti. Ha ricevuto il Premio Saint Vincent per il Dizionario di economia politica e il Premio Napoli per il saggio Conflitto Crisi Incertezza.

Non crede che chiudere l’anno con un PIL in contrazione dell’1,9% e una crescita stimata di mezzo punto percentuale nel 2014 secondo le recenti previsioni dell’OCSE non è un buon viatico per un Paese sotto osservazione in Europa e che ha bisogno di voltare pagina e cominciare la marcia dello sviluppo? Siamo gli unici nel Club dei grandi del G8 ancora in recessione. Ma com’è possibile?

“Tutte le grandezze macroeconomiche hanno segno meno. Questo mi fa pensare che in Italia non si tratti di una recessione, ma di una dinamica piatta che dura da molti anni. Il tasso di crescita si aggira intorno allo zero, e la depressione con sintomi di deflazione è una malattia grave. Uscire da questa situazione è molto difficile ed è illusorio pensare di potersi agganciare ad altre economie che stanno riprendendo a crescere. I dati sul PIL, sulla disoccupazione e sui prezzi confermano questa diagnosi, e d’altra parte i provvedimenti previsti nella legge di stabilità non consentono nessun ottimismo.”

Il Commissario agli Affari economici Olli Rhen ha detto che l’Italia per quanto riguarda il deficit è in linea ma per raggiungere gli obiettivi concordati  ”lo sforzo di aggiustamento strutturale avrebbe dovuto essere pari a mezzo punto del Pil, e invece è solo dello 0,1 per cento. Ed è per questo motivo che l’Italia non ha margini di manovra e non potrà invocare la clausola di flessibilità per gli investimenti”. L’Europa è scettica sulla capacità dell’Italia di rispettare gli impegni. Il Governo con Letta e Saccomanni dicono che l’Italia ce la farà.

“Pesa la situazione politica italiana. La vicenda Imu è emblematica: in tutti i Paesi un’imposta analoga, anche se diversamente modulata, esiste. Vale molto la recente dichiarazione di Draghi, che pur non nominando mai l’Italia, si rivolge a noi. Ci sono tre elementi indispensabili per una ripresa effettiva: politiche fiscali e macroeconomiche sostenibili e soprattutto maggior competitività, che significa più produttività (ferma da dieci anni)”.

Significa che non lavoriamo abbastanza?

“Significa che occorre provvedere a spingere la competitività. E’ innegabile che ci siano centinaia di imprese italiane che sono competitive grazie all’innovazione e alla qualità dei loro prodotti. Il problema è che non siamo competitivi come sistema!”.

Come aumentare la nostra competitività?

“Ciò può avvenire con tre mosse: l’innovazione e gli investimenti. Questo è compito delle imprese, che sono piccole e medie, mentre la produttività è spinta in alto tradizionalmente dalle grandi. Occorre, però, anche l’intervento dello Stato. Occorre che il Governo centrale fornisca un contesto istituzionale adeguato ad un’economia industriale moderna, con procedure amministrative e giudiziarie più snelle. E’ notevole che idee di questo genere siano state recepite dal Governo, ma soltanto al fine di attirare degli investimenti esteri. Misure di questo genere sono state annunciate, ma non capisco perché debbano riguardare solo eventuali investimenti esteri, investimenti intesi come creazione di nuova capacità nel nostro paese”.

La disoccupazione ha raggiunto percentuali intollerabili: 12% a luglio; 39,5% il tasso di disoccupazione fra i giovani. In Europa fan peggio Spagna e Grecia. Di troppo rigore rischiamo di morire. Come valuta la Legge di Stabilità? Pur con gli aggiustamenti, mi sembra frutto di un compromesso, che lascia molto scontenti e, come nel caso della mini Imu addirittura sconcertati e contrariati molte categorie.

“Avremmo dovuto fare di più negli ultimi anni, e la legge di stabilità non mi pare sia all’altezza della situazione. Il pagamento dei debiti alle imprese è questione di civiltà economica. Debiti che, una volta certificati, devono essere onorati. Poi c’è il problema del credito alle imprese. Gli interventi della BCE, di immissione di denaro nel sistema mediante l’acquisto di titoli di Stato, non si trasmettono al mercato del credito italiano, e questo è un problema che può essere risolto soltanto a livello europeo. Draghi l’ha già detto: occorre far evolvere il sistema verso un Unione bancaria”.

Già la stretta creditizia. L’Abi sostiene che la debolezza dell’attività di finanziamento dell’economia è un tratto comune dei Paesi dell’area dell’Euro. Ma le misure ordinarie e straordinarie adottate dalla BCE, oltreché a migliorare il clima di fiducia dei mercati finanziari, a ridurre la frammentazione e la leva finanziaria, ad allentare la tensione sul mercato e calmierare gli spread, non dovevano servire a far sì che le banche rifinanziandosi a tassi bassi, riprendessero a fornire credito all’economia reale?

“La BCE non c’è riuscita. Non credo che per questo si possa criticare Draghi. “Faremo tutto ciò che è possibile per salvare l’euro” disse Draghi nel luglio 2012, ma il resto lo devono fare i governi nazionali. Non dimentichiamo che la BCE, a differenza della Riserva federale americana, ha come scopo di contrastare l’inflazione, non anche quello di stimolare la crescita. Ciò è successo perché abbiamo conferito all’UE la leva monetaria, ma non la leva fiscale dal lato delle entrate e della spesa. Ciò che può fare Draghi è previsto dall’architettura istituzionale: poi tocca ai singoli Governi fare. Ma di nuovo allora pesa quel vincolo del 3% tra deficit e Pil, che oltretutto è adesso un vincolo contenuto nella Costituzione, sia pure con qualche correttivo. Il problema è l’eccesso della spesa pubblica improduttiva e l’elevata evasione fiscale, che rende tutto più complicato”.

Le banche si difendono sostenendo che, a seguito del perdurare della crisi e dei suoi effetti, la rischiosità dei prestiti in Italia è aumentata: le sofferenze nette a settembre 2013 sono lievitate a 72,5 miliardi. Le banche italiane hanno bisogno di ricapitalizzarsi? E’ configurabile un intervento dello Stato?

“Credo che sia necessario. Le banche italiane non sono messe malissimo. Tuttavia, come Draghi ha denunciato più volte, il comportamento delle banche impedisce che la politica monetaria si trasmetta compiutamente alle imprese e qui ritorna il problema centrale: quello di come favorire l’occupazione dei giovani da parte delle imprese. Occorre dunque che a ciò le banche provvedano, poichè questa è la loro funzione principale. E, ad un tempo, occorre la riduzione del cuneo fiscale che pesa sui lavoratori e sulle imprese, ma anche in questo caso le difficoltà politiche rendono difficile agire in questa dirazione”.

 

 

 

 

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