Ifigenia in Tauride, ovvero l’inganno e la beffa

Un momento della rappresentazione nella fotografia di Michele Pantano

Grande successo al Teatro greco di Siracusa della terza produzione del 57° ciclo di rappresentazioni classiche dell’Inda. Un momento della rappresentazione nella fotografia di Michele Pantano

Di Giambattista Pepi. E’ una tragedia? No. E’ a lieto fine. Allora potremmo definirla una non tragedia degli equivoci? Probabilmente sì. Ma fino a un certo punto. Perché quando poi si chiariscono, la tragedia – non tragedia prende una piega particolare con venature di commedia, intesa nel suo significato etimologico di rappresentazione teatrale di origine classica, caratterizzata da uno stile e da un linguaggio realistici e dal lieto fine.

Stiamo parlando di Ifigenia in Tauride, lo spettacolo diretto da Jacopo Gassmann con la traduzione dal greco di Giorgio Ieranò, che ha debuttato venerdì al Teatro Greco di Siracusa (repliche fino al 4 luglio)  che ha riscosso un grande successo come del resto è avvenuto per le due produzioni del 57° ciclo di rappresentazioni classiche della Fondazione INDA che l’hanno preceduta: l’Agamennone di Eschilo per la regia di Davide Livermore ed Edipo Re di Sofocle diretto da Robert Carsen.

Jacopo Gassmann al debutto al Teatro greco di Siracusa non ha voluto osare, il suo spettacolo è sobrio, elegante, frutto di un grande studio, quel che manca è l’emozione. La traduzione di Ieranò è invece del tutto moderna, agile, e inciterebbe all’ironia più di quanto vediamo in scena.

Anna Della Rosa interpreta Ifigenia. Foto di Michele Pantano

Anna Della Rosa interpreta Ifigenia. Foto di Michele Pantano

La recitazione di grande impatto lascia spazio alla rabbia di Ifigenia, un’elegantissima e strepitosa Anna Della Rosa, travolta dall’avere perduto tutto: la famiglia, la patria, la libertà. “I greci mi hanno ucciso” e ha paura, circondata da un coro femminile in total black, che è come fosse l’emanazione della sua coscienza. Le scene di Gregorio Zurla si avvalgono anche del Visual Designer: Luca Brinchi e Daniele Spanò, che però poco influiscono sulla messa in scena, mentre bellissimi sono i costumi femminili di Gianluca Sbicca, gli uomini in tenuta mimetica. Ivan Alovisio e Massimo Nicolini sono Oreste e Pilade, a loro agio in una prova non certo facile. Toante, re della Tauride (l’odierna Crimea) che verrà beffato dal piano arguto dei due fratelli è Stefano Santospago, un re quasi affascinato dalla bella figlia di Agamennone, fiducioso, sereno, paziente.

Ifigenia in Tauride – ha scritto tra l’altro nelle sue note Gassmann – è un testo costellato di domande e contraddizioni, a partire dalla sua natura stilisticamente ibrida. È una tragedia scura e inquieta che si trasforma improvvisamente in una “escape tragedy”, una sorta di fuga rocambolesca da una terra dove apparentemente si compiono sacrifici umani ma che, a uno sguardo più approfondito, rivelerà una natura molto più ambigua e sfuggente”.

Ifigenia in Tauride o Ifigenia fra i Tauri è una tragedia scritta da Euripide e rappresentata per la prima volta tra il 409 a. C. e il 414 a. C. Spicca su tutti il “tòpos” della morte apparente: tutta la Grecia pensava che Ifigenia fosse stata immolata dal padre Agamennone (re dell’Argolide e supremo comandante dei greci nella guerra contro Troia) come vittima sacrificale, per permettere alle navi greche la spedizione contro Ilio, invece la ragazza è viva ed è sacerdotessa in Tauride con in cuore l’odio verso i greci che, in nome di una guerra, non si sono opposti al suo sacrificio.

Il ricongiungimento tra Oreste e Ifigenia. Foto di Gianni Luigi Carnera

Il ricongiungimento tra Oreste e Ifigenia. Foto di Gianni Luigi Carnera

Il mito sottolinea come un presunto sacrificio scateni un’infinita serie di morti: Clitennestra uccide Agamennone per vendicare la figlia e, a sua volta, la donna e il suo amante Egisto vengono uccisi dall’altro figlio Oreste per vendicare il padre. E qui subentra l’aspetto divino: Oreste è perseguitato dalle Erinni e non trova pace; interviene Apollo che incarica il giovane di rubare una statua sacra ad Artemide e di portarla ad Atene per liberarsi per sempre da ogni tormento.

Insomma, è la sorte a governare la vita dell’uomo mitico: la stessa Ifigenia, parlando al fratello riconosciuto, si domanda “Quale sorte mi toccherà?” (v. 874) e parla sia di una sorte che salva, sia di una sorte che condanna, quella sorte che ha salvato lei dalla morte sull’altare e che ha salvato il fratello dall’immolazione (buona sorte), ma anche quella sorte che ha scatenato omicidi e vendette apportando il male in famiglia (cattiva sorte). Parla di “sorte” anche Pilade, il migliore amico di Oreste, marito della sorella Elettra, compagno di avventure (e sventure): “Il saggio sa cogliere l’occasione propizia”.

Viene quindi introdotto il motivo del “momento opportuno”, l’”attimo fatale” che, se colto, porta fortuna (nel senso positivo) ed evita il dolore. Nella vita di ogni eroe o personaggio mitico appare evidente il ruolo della sorte: tutto è sempre appeso ad un filo o dipendente da una decisione divina. Tutti gli eventi attorno ad una figura mitologica sono strettamente legati alla religione e soprattutto ai riti: in questo testo è inevitabile comprendere il punto di vista euripideo in merito alla ritualità dei Greci; tra mondo umano e mondo divino Euripide individua un’inesistenza di comunicazione: secondo lui ha tutto in mano il singolo uomo che, a causa delle passioni mortali, cede al male. Secondo Euripide (sofista) le divinità esistono perché gli uomini ne hanno bisogno e lo stesso vale per il mito (verso cui lui stesso è scettico).

La trama sottolinea l’inutilità degli oracoli o dei riti, infatti, nonostante Ifigenia sia ancora viva, le navi greche sono partite (e tornate) da Troia; la morte della fanciulla sembrava essere l’unica e inevitabile soluzione e invece non è stato così. Da un altare, Ifigenia, rapita, si ritrova catapultata in una terra non sua a compiere riti sacrificali: da vittima a carnefice (ribaltamento dei ruoli). Tutti la credono morta e anche lei si sente morta (“La Grecia intera mi ha uccisa”). Il fratello supera ostacoli, difficoltà e avversioni divine per recarsi in questa terra barbara e inospitale (la Tauride) in cerca della pace dalle Erinni.

Per arrivare in Tauride, la traversata dell’”inospitale” Mar Nero è la metafora della vita di Oreste: un’esistenza complicata e “cruda” (il Mar Nero) per poi raggiungere la felicità (il ricongiungimento con la sorella). È l’arrivo di Oreste (e dell’amico Pilade) in Tauride l’episodio iniziale della tragedia. Mandati da Apollo, i due cercano pace, ma incontrano una prospettiva di morte; catturati, vengono portati al tempio per essere sacrificati secondo l’usanza.

La sacerdotessa è la sorella Ifigenia. Si apre una lunga sequenza fatta di momenti ambigui e che sfocia nel riconoscimento dei due consanguinei. Oreste spiega alla sorella che è stato incaricato da Apollo per portare la statua di Artemide ad Atene per espiare le sue colpe. Inizia una sequenza in cui l’astuzia della donna elabora un piano che i tre attueranno poi con successo.

 

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