Nordea AM. Prospettive autunnali. Il costo della corsa Usa

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump

La narrativa macroeconomica quest’anno è passata dalla “ripresa sincronizzata” del 2017 al “rallentamento asimmetrico”. Nella prima metà del 2018, riteniamo poi che l’economia globale abbia superato il suo picco di crescita, influenzata da una doppia ondata di turbolenze monetarie: il rialzo dei tassi reali a breve termine negli Stati Uniti (nonostante un livello inflattivo elevato) e l’apprezzamento del dollaro Usa. L’accelerazione dell’inflazione in occidente inoltre alimenta questi venti contrari, confermando così la nostra tesi che prevede un trade-off inflazione / crescita meno favorevole. Da notare che a luglio l’inflazione core USA ha raggiunto i livelli più alti dal periodo della crisi finanziaria. Un fattore chiave alla base della restrizione monetaria è la dirompente divergenza tra le principali economie. Da un lato si pone la solida crescita degli Stati Uniti che beneficia del supporto ciclico dato dalla riforma fiscale di Trump. Al lato opposto si trova invece la Cina che risente della riduzione dei flussi di credito e dei dolorosi e impari effetti del protezionismo economico. In termini relativi, infatti, sono gli Stati Uniti ad emergere come vincitori dalla battaglia commerciale in essere tra le prime due economie mondiali, grazie all’ampiezza e relativa chiusura della loro economia. Al contrario, l’apertura commerciale di Pechino, che l’aveva incoronata regina della globalizzazione, la condanna ora a doversi far carico delle più gravose conseguenze.

Questa differenza crea naturalmente attriti nei mercati, soprattutto in quello dei cambi. In pratica, il tutto si traduce in un rafforzamento del biglietto verde che, a sua volta, causa un inasprimento delle condizioni monetarie nei Paesi esterni agli Stati Uniti e, in particolare, nei Paesi emergenti, dove una larga parte del debito è stato emesso in valuta americana. Per queste regioni, quindi, un dollaro più forte significa quindi maggiori costi connessi al debito. Il rischio è che si crei un circolo vizioso tra i singoli mercati e l’economia globale: la disparità nei tassi di crescita spinge il dollaro Usa, riflettendosi nei mercati emergenti e andando così ad aumentare la disuguaglianza, e così via.

Questa importante differenza sul lato macroeconomico crea un equilibrio instabile a livello globale. Prima o poi, dunque, qualcosa dovrà cambiare e sono due i possibili scenari: o gli Stati Uniti rallenteranno la loro corsa o la Cina e il resto del mondo inizieranno a premere sull’acceleratore. Osservando le cose da vicino, si vede come i fattori che supportano la crescita Usa, come i tagli alle aliquote e il prezzo del petrolio, siano in larga parte ciclici, mentre i problemi dell’economia cinesi sono prevalentemente strutturali e perciò più persistenti. E’ più probabile quindi che sia Washington a fare un passo indietro, anche se si tratta di un risvolto narrativo per il 2019. Per adesso, la “divergenza  dirompente” è destinata a dominare la scena macroeconomica.

Con le nuove condizioni globali le strategie più popolari del 2017 stanno cadendo come un domino. A febbraio si è partiti con quelle a volumi contenuti, seguite dal trading short sul dollaro e dal capovolgimento della perfomance del comparto emergente. I prossimi tasselli ad essere colpiti dall’inasprimento della liquidità, secondo noi, saranno il segmento del credito low-rated e, alla fine, gli scambi long sull’equity. Questo rende più prossimo il raggiungimento del picco per il mercato azionario. Il valore del biglietto verde sarà cruciale in questo senso, visti i suoi effetti sulle condizioni monetarie: un apprezzamento effettivo, ovvero ponderato per gli scambi, del 5% prima della fine dell’anno dovrebbe causare una stretta tale da portare l’azionario al suo massimo entro i prossimi 6 mesi. Nel frattempo, suggeriamo gli investitori di considerare i titoli difensivi. In questo contesto, la performance dei mercati sviluppati è attesa confermarsi migliore rispetto alle altre piazze, in quanto questi Paesi sono meno vulnerabili al rallentamento della crescita e all’irrigidimento della liquidità. L’aumento del rischio macroeconomico, inoltre, rende la value proposition del reddito fisso europeo e statunitense più appetibile, alla luce della forza deflattiva di misure protezionistiche e strette monetarie. Infine, l’attenzione dovrebbe catalizzarsi su beni considerati porti sicuri e su obbligazioni con rating elevati e bassa duration. Pensiamo soprattutto ai covered bond, titoli che possono garantire rendimenti simili a quelli di un obbligazione investment grade, ma ad un rischio minore.

Poiché le condizioni monetarie sono fondamentali, le banche centrali assumono naturalmente il ruolo di protagoniste. Una Fed più colomba o uno stimolo a tutto tondo della banca centrale cinese sono le ipotesi che vanno per la maggiore, anche se il “bruciore” dovrà essere molto più forte per convincere le banche centrali ad un dietro-front. Un Trump meno aggressivo nelle proprie politiche commerciali è comunque meno probabile. Dato che l’ascesa della Cina è andata di pari passi con una diminuzione dei salari per i lavoratori Usa, il presidente potrebbe cercare di prendere due piccioni con una fava: continuare a fare la voce grossa con la Cina consolida la prima posizione per l’economia statunitense e funge da balsamo per l’elettorato.

 Witold Bahrke, senior macro strategist di Nordea AM

 

 

 

 

Questa voce è stata pubblicata in Economia, Finanza e contrassegnata con , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


tre + otto =

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>