L’OCSE lancia l’allarme: il sistema finanziario è esposto ad elevato rischio

Npl banche e abitudine a 'denaro facile' osservati speciali

Npl banche e abitudine a ‘denaro facile’ osservati speciali

Milano, 3 settembre – Il sistema finanziario si avvia verso tempi ad alto rischio. E’ l’allarmante conclusione cui giunge un rapporto dell’Ocse, tirando le somme tra le ricadute della normalizzazione delle politiche monetarie delle banche centrali che potrebbe innescare un periodo di volatilità i persistenti fattori di vulnerabilità del settore finanziario, dove le riforme post-crisi non sono state dell’ampiezza necessaria e gli alti livello di debito e leva, in particolare in Cina, su cui sono puntati i riflettori dopo l’espansione ‘monstre’ del credito negli ultimi 10 anni. Secondo il ‘Business and Finance Outlook’ dell’Ocse, giunto alla sua quarta edizione, tutti questi rischi possono fermare la crescita nell’economia globale. Vari gli indizi che inducono ad alzare il livello di guardia. A cominciare dagli Npl delle banche europee, che pur ridotti, restano troppo alti e dal fatto che i mercati si sono abituati al ‘denaro facile’, il che ha portato le obbligazioni, e in una certa misura anche le azioni, ad essere sopravvalutate. Gli investitori istituzionali, alla ricerca di rendimenti in un contesto di bassi rendimenti, inoltre, si sono spinti verso titoli a bassa liquidità. Il Governo Usa ha tagliato le tasse il che farà aumentare il deficit di bilancio e questo significa che il settore privato dovrà assorbire ancora più obbligazioni, oltre a quelle che arriveranno sul mercato per l’abbandono del quantitative easing, per quanto graduale e pre-annunciato. E si tratta di numeri iperbolici: i bilanci delle banche centrali degli Usa, dell’area euro, del Regno Unito e del Giappone sono passati da circa 3,2 trilioni di dollari nel gennaio 2007 a circa 15 trilioni all’inizio del 2018. Il che porta a stimare che le banche centrali in questione dovranno ‘alleggerirsi’ di asset per circa 10 trilioni di dollari per tornare ai livelli del 2007. Gli istituti centrali potrebbero decidere di detenere più asset rispetto all’ante-crisi, ma comunque ci vorranno anni per la normalizzazione, tanto più che al momento solo negli Usa i tassi d’interesse hanno iniziato a tornare verso la normalità.

Del resto, nota il rapporto, solo negli Usa c’è un economia abbastanza forte, un sistema bancario sufficientemente redditizio e una ricostituzione del capitale sufficientemente avanzata per avviare la normalizzazione. Resta da vedere se le banche e le altre istituzioni finanziarie sono pronte a fare i conti con il venire meno dell’ampio ‘cuscino di liquidità’ offerto dal Qe. Sarà un test anche per vedere se la normativa bancaria Basilea 3 – scrivono gli esperti dell’Ocse – ha raggiunto l’obiettivo di assicurare la solidità del sistema finanziario in situazioni di stress, in particolare laddove la liquidità dei prodotti è un fattore di volatilità. La normalizzazione delle politiche monetarie, in ogni caso, obbligherà a riposizionamenti della asset alllocation il che porterà a una maggiore volatilità dei prezzi nei tempi a venire. Basilea 3, per altro, pur avendo ottenuto progressi sulle regole di rafforzamento del capitale, ha lasciato gli istituti di importanza sistemica e il loro modello di business simili a quelli che erano prima della crisi, non ha cioè portato alla separazione tra le attività di banca d’investimento e quelle di deposito. La fragilità che risulta da questa interconnessione resta un ‘nodo’ importante per il sistema. Ed è un modello che fa un uso diffuso di derivati per la costruzione di prodotti di investimento complessi e per scopi di arbitraggio fiscale e normativo. Questo ‘crea leva e contribuisce al rischio finanziario’. Oltre tutto, usare i derivati in questo modo ‘non aiuta l’economia reale’. I numeri dei derivati restano altissimi: il loro valore nozionale, che è un indice della interdipendenza delle istituzioni finanziarie di importanza sistemica (G-Sib), era pari a 532 trilioni di dollari nella seconda metà del 2017, non molto distante dai 586 trilioni nella seconda metà del 2007, poco prima dello scoppio della crisi. Gli Usa e la Gran Bretagna, secondo l’Ocse, hanno fatto molti progressi in materia di modello di business delle banche. Ue e Svizzera ritengono, invece, che le procedure di risoluzione siano sufficienti a fare fronte alle difficoltà delle banche ‘troppo grandi per fallire’. Un punto su cui l’Ocse si mostra dubbiosa, sia per le dimensioni che avrebbero gli eventuali ‘bail-in’, sia per l’interconnessione tra le istituzioni sistemiche. La Cina, dal canto suo, viene chiamata in causa oltre che per il suo sistema bancario ufficiale, anche per lo ‘shadow banking’ e il settore del risparmio gestito. Per effetto dell’espansione del credito fornito alle aziende di proprietà statale dal 2009 in poi, i bilanci delle banche cinesi hanno raggiunto 39,3 trilioni di dollari nel 2017, pari al 310% del Pil e lo shadow banking più il risparmio gestito aggiungono un altro 63% del Pil all’esposizione. Se poi si considerano anche gli impegni ‘fuori bilancio’, gli asset delle banche cinesi raggiungono il 387% del Pil contro il 200% circa del 2008. La percentuale degli Npl è sconosciuta data la mancanza di trasparenza del sistema. Considerando la natura chiusa del sistema finanziario, ogni problema – ad esempio un episodio di crisi nel sistema creditizio – che dovesse indurre le autorità di Pechino a ridurre gli investimenti in titoli Usa potrebbe aumentare le pressioni sulla liquidità nei Paesi avanzati. Nell’insieme gli squilibri del mercato del reddito fisso sono problematici, sottolinea l’Ocse: un ‘liquidity event’, la volatilità e la complessa interazione dei mercati tramite i derivati nelle economie avanzate assieme all’ampio uso fatto in Asia dei veicoli ‘fuori bilancio’, potrebbero coalizzarsi per rendere più difficili i tempi che ci attendono.

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