Pramerica SGR. È quasi intesa USA-Cina, ma cosa vuol dire per il resto del mondo?

Il Presidente degli Stati Uniti, Doland Trump e il Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping

Il Presidente degli Stati Uniti, Doland Trump e il Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping

La nostra attuale valutazione è che, nonostante la recente escalation delle tensioni, Cina e USA desiderino chiaramente ancora raggiungere un accordo. La Cina probabilmente vuole evitare la necessità di fornire più stimoli, alimentando ulteriormente debito e leva finanziaria, e il Presidente Trump vuole una forte economia e un mercato azionario in crescita per sostenere la sua rielezione del 2020. Le difficoltà nel passare dall’attuale stallo ai negoziati costruttivi potrebbero essere risolte da un intervento personale tra i presidenti Trump e Xi: ad esempio, una telefonata con un linguaggio reciprocamente conciliante, probabilmente darebbe spazio al negoziato per tornare sulla giusta strada. Ci aspettiamo che le due parti raggiungano un accordo con l’incontro del G20 in Giappone alla fine di giugno, un’opportunità particolarmente buona. Anche così, i rischi ora sono chiaramente distorti verso risultati più lunghi e più controversi. L’amministrazione Trump si adopererà per garantire che un accordo in tema di guerra commerciale porti vantaggi – tra tutti i partner commerciali del Dragone – in primis agli Stati Uniti, ma che dire delle implicazioni per il resto del mondo?

L’impegno cinese verso un incremento degli acquisti di determinati prodotti americani dovrebbe far aumentare le esportazioni statunitensi nell’ex Celeste Impero. Tuttavia, anche secondo le più rosee aspettative, è improbabile che il restringimento dello squilibrio commerciale superi i 100 miliardi di dollari all’anno. È un numero significativo, ma nettamente inferiore agli oltre 200 miliardi di dollari sbandierati dalla stampa. E la realizzazione anche solo di questo traguardo potrebbe richiedere interventi da parte del governo cinese che ricordano più le economie pianificate che non quelle di mercato. Per comprendere la distribuzione geografica delle importazioni cinesi possiamo guardare ai dati del 2017 che, oltre a essere i più recenti attualmente a disposizione, presentano il vantaggio di essere precedenti ai cambiamenti eccezionali (e presumibilmente temporanei) che hanno interessato gli scambi a seguito dell’introduzione dei nuovi dazi. L’Unione Europea, anche escludendo il Regno Unito, si trova al primo posto della classifica con beni per 223 miliardi di dollari esportati. Gli USA si trovano in alto nella lista, con export per un totale di 154 miliardi di dollari, dietro soltanto a Unione Europea, Corea del Sud e Giappone. Chiaramente, se l’aggiustamento negli scambi dovesse avvenire interamente tramite un aumento degli acquisti di beni dagli USA, la quota imputabile agli Stati Uniti balzerebbe in testa alla lista e supererebbe largamente gli altri partner commerciali della Cina. Il totale delle esportazioni del Paese a stelle e strisce verso il Dragone supererebbe i 390 miliardi di Dollari, un valore superiore del 150% al dato attuale.

In realtà, questo ribilanciamento si manifesterà più probabilmente attraverso tre possibili strade:

1)  Crowding out in specifiche categorie. Per esempio, un impegno ad acquistare maggiori quantità di soia dagli USA si potrebbe tradurre in minori acquisti presso altri Paesi. Lo stesso vale per tutti i prodotti oggetto di questa manovra. I principali perdenti in questo scenario sarebbero il Brasile (soia), Australia e Qatar (gas naturale liquefatto), Giappone e Regno Unito (auto) e l’Europa (auto e aeromobili).

2)  Rapida crescita delle categorie oggetto di accordo. Come conseguenza dell’impegno ad acquistare maggiori quantità di gas naturale liquefatto dagli USA, per esempio, la Cina potrebbe decidere di tagliare altre forme di energia, in primis il petrolio. Gli esportatori di petrolio come Russia, Arabia Saudita e Angola ne risentirebbero. Insieme agli Stati Uniti, gli altri esportatori di gas naturale liquefatto come l’Australia e il Qatar dovrebbero invece beneficiare dell’aumento della domanda.

3) Crowding out dei prodotti collegati. Un impegno ad acquistare maggiori quantità di soia dagli USA potrebbe portare a un aumento diretto degli acquisti di altri prodotti agricoli statunitensi come mais, soia e carne di maiale. Similmente, un impegno ad acquistare semiconduttori dagli USA potrebbe portare a maggiori ordini di prodotti elettronici a stelle e strisce in senso più ampio.

4)L’apertura del mercato cinese agli USA avrà con tutta probabilità un effetto negativo su altri Paesi, tra cui il Brasile (agricoltura), la Russia e l’Arabia Saudita (petrolio), l’UE (auto e velivoli), il Giappone (auto ed elettronica) e Taiwan e Corea (elettronica). Data la varietà delle importazioni cinesi, tuttavia, la nostra sensazione è che lo shock sarà gestibile per questi Paesi

5)Alcuni potenti fattori economici potrebbero tuttavia inficiare la portata e i tempi dell’accordo, quali la persistenza delle relazioni tra i fornitori esistenti della Cina e gli altri Paesi, la capacità dei produttori statunitensi di incrementare a sufficienza le esportazioni, la distanza geografica tra i due Paesi e i relativi costi di trasporto, e la riluttanza di Pechino a uno sbilanciamento tale per cui si troverebbe a rifornirsi dei principali prodotti importati da un partner unico. Un ulteriore ostacolo? Lo sviluppo economico del Dragone implica che gli esportatori statunitensi dovranno probabilmente fare fronte all’intensificarsi della concorrenza delle imprese nazionali nel mercato cinese (ad esempio in settori quali automobili e velivoli), e lo scenario macroeconomico di base, semmai, indica un allargamento dello squilibrio.

6)Da qui sorgono interrogativi più profondi in merito all’accordo. In particolare, in che misura effettivamente farà crescere le esportazioni totali a stelle e strisce o le importazioni totali cinesi? Se i produttori americani dirottano semplicemente le esportazioni da altri mercati verso la Cina, mentre gli altri – esclusi dalla piazza cinese – colmano il vuoto nei Paesi da cui gli americani sono usciti, il risultato sarà un rimpasto inefficiente dei modelli di commercio globale. Sarebbero le imprese a sostenere i costi per stabilire nuovi rapporti con i fornitori e a ricostruire le catene di approvvigionamento. Ecco evidenziato il valore di approcci multilaterali, o quantomeno di ampio respiro, volti alla liberalizzazione degli scambi. Con l’abbattimento simultaneo delle barriere commerciali in diversi Paesi si creerebbero nuove opportunità per il commercio piuttosto che una semplice deviazione degli scambi da una destinazione all’altra.

7)Per di più, è sorprendente che Washington apparentemente non dia priorità a un’ulteriore apertura del mercato dei servizi in Cina. Gli Stati Uniti hanno un vantaggio comparato in quest’area e un surplus nei confronti della Cina. L’amministrazione Trump si è invece concentrata principalmente sui beni. Ma, chiaramente, un migliore accesso per le aziende statunitensi che erogano servizi di tecnologia dell’informazione, consulenza, entertainment, pubblicità e servizi finanziari darebbe luogo a un significativo incremento delle esportazioni complessive.

8)Infine, l’accordo contemplato solleva anche alcune preoccupazioni riguardo alla futura traiettoria dello sforzo di riforma intrapreso dalla Cina. Per decenni, gli Stati Uniti hanno esortato Pechino a perseguire riforme economiche focalizzate sul mercato. Al contrario, la struttura dell’accordo atteso – con la Cina che si impegna ad aumentare gli acquisti di determinati beni per importi negoziati – conserva il gusto inconfondibile della pianificazione centrale. E l’attuazione di tali impegni potrebbe ampliare il ruolo giocato da governo e imprese statali nell’orchestrare i dettagli delle relazioni commerciali. In termini sistemici, anche se alla fine sfocerà in una certa riduzione dello squilibrio commerciale, si tratta di uno sviluppo preoccupante.

Nathan Sheets, Chief Economist di PGIM Fixed Income, gestore delegato di Pramerica SGR

 

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