Axa IM. L’outlook dell’economia degli Stati Uniti. Analisi di Alessandro Tentori

Il Presidente degli Stati Uniti d'American, Donald Trump

Il Presidente degli Stati Uniti d’American, Donald Trump

L’economia statunitense ha generato in media 205mila nuovi posti di lavoro ogni mese negli ultimi 7 anni. Nonostante il rapido aggiustamento del tasso di disoccupazione – dal picco al 10% nel 2009 all’attuale livello di 3.9% – l’inflazione salariale al 2.7% non preoccupa ancora. Per analizzare il ciclo economico in seguito alla Grande Crisi Finanziaria viene spesso utilizzato il modello standard Neokeynesiano con salari fissi e prezzi variabili, modello che spiega altrettanto bene la resilienza dei salari in un contesto di crescenti squilibri sul mercato del lavoro. Per intenderci, gli squilibri si manifestano quando il tasso di disoccupazione attuale si differenzia in maniera significativa dal tasso di disoccupazione di equilibrio.

Il ciclo economico può considerarsi un ciclo maturo (110 mesi di espansione, come sottolineavamo in precedenza), ma nonostante ciò gli indicatori anticipatori del ciclo continuano a supportare la tesi di una crescita solida, con le stime degli analisti che rientrano in una forchetta tra il 2.5% e il 3.5% per il 2018. L’indicatore GDPnow della Fed di Atlanta si è attestato in media al 4.3% negli ultimi tre mesi, livello di crescita molto sostenuta e del tutto in linea con i livelli previsti dall’ISM. Va però fatto notare che negli ultimi 30 anni, l’ISM ha sempre corretto dai livelli attuali, molto probabilmente grazie alla risposta anti-ciclica della politica monetaria effettiva/attesa.

Attualmente la curva dei Fed Funds sconta 31 punti base di ulteriori rialzi entro fine anno. Un rialzo di 25 punti base (con ogni probabilità a settembre), dopodiché il tasso effettivo della Fed potrebbe finire l’anno in una forchetta 2.25%-2.50% con una probabilità del 25% circa. La traiettoria media suggerita dai membri dell’FOMC si discosta dai livelli implicati dal mercato di 18 punti base a dicembre 2018, di 40 punti base a dicembre 2019 e di ben 71 punti base a dicembre 2020 (tasso terminale), per poi convergere lentamente nel lungo periodo verso un tasso leggermente al di sotto del 3%.

Il cuneo tra mercati e FOMC non è una anomalia ed è sempre stato presente da quando la Fed pubblica i SEPs. Va anche evidenziato come le aspettative di mercato siano eterogenee e dipendano in larga parte dalla tipologia di investitore. I dati sul posizionamento in futures e opzioni listate su CBOT mostrano chiaramente la presenza di ingenti “shorts” sia sul Treasury a 5 anni che sul contratto decennale. I dati disaggregati – cioè per categoria di trader – sono invece molto più ricchi di informazioni: se da un lato le posizioni corte sono a carattere speculativo, gli investitori istituzionali “real money” tendono a mantenere posizioni lunghe.

Forse gli Stati Uniti non cresceranno al ritmo del 4% nei prossimi 24 mesi, ma molto probabilmente non entreranno nemmeno in recessione. Sia sui mercati che a livello di policy making, la partita si gioca su una differenza di tre rialzi dei tassi nei prossimi 30 mesi. Inoltre, dal punto di vista della Fed, il tasso naturale d’interesse reale potrebbe essere più vicino al 2% che all’1% ipotizzato da vari studi accademici, nel qual caso il tasso terminale Fed Funds potrebbe essere addirittura più alto del 3.4% previsto dall’FOMC per la fine del 2020.

In ogni caso, la conferma di una traiettoria di politica monetaria più aggressiva di quanto scontino i mercati dovrebbe arrivare dai dati sull’inflazione e dovrebbe arrivare abbastanza presto in modo da confermare il livello storico delle posizioni corte sul mercato dei Treasuries. In assenza di tale conferma, la leva con la quale questi shorts operano andrebbe ad amplificare il carry negativo e risulterebbe in un cosiddetto “short squeeze” a favore degli investitori istituzionali real money. E comunque, anche in caso di una eventuale conferma, rendimenti ben oltre il 3.5% sul decennale Treasury mi appaiono abbastanza improbabili nel breve termine.

Dal punto di vista dell’allocazione tattica, potrebbe quindi avere un senso aumentare l’esposizione al fixed income statunitense senza copertura del cambio: sia un’accelerazione inattesa di politica monetaria che uno scenario di recessione globale (inattesa pure questa) andrebbero a beneficio del dollaro americano.

Alessandro Tentori, CIO AXA Investment Managers

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