La fine di un mito e la deriva del lavoro. Articolo di Giambattista Pepi

Pranzo in cima al grattacielo. Scattata dal fotografo americano  Charles C. Ebbets il 20 settembre 1932 sulle impalcature del Rockfeller Center di New York.

Pranzo in cima al grattacielo. Foto scattata dal fotografo americano Charles C. Ebbets il 20 settembre 1932 sulle impalcature del Rockfeller Center di New York.

Sebbene gli esperti si ostinino a negarlo, è di tutta evidenza che, sotto i colpi di maglio della Grande Crisi e della ristrutturazione dell’economia globalizzata, sta sgretolandosi il mito della “piena occupazione”. Per come almeno veniva intesa in senso classico. Vale a dire quella auspicata e garantita nella seconda metà del Novecento, in particolare nei paesi occidentali.In quell’epoca per piena occupazione si intendeva  “lavoro normale”, stabile, duraturo.

La stabilità, contrapposta alla precarietà odierna, consentiva ad ognuno di apprendere e praticare un mestiere: manuale, o intellettuale che fosse. C’era, allora, se non la certezza, l’elevata probabilità, che quel lavoro restasse per tutta la vita. Il che gli avrebbe comunque garantito, assieme alla realizzazione di sé stesso, le condizioni materiali dell’esistenza. Non esclusa una plausibile speranza di miglioramento nel futuro. Oggi quel mito sta venendo meno.

Foto di lavoratori sull’Empire State Building di New York  scattata da Lewis Hine.

Lavoratori sull’Empire State Building di New York. Foto di  Lewis Hine.

Ora il lavoratore si ritrova, invece, in una condizione totalmente diversa. Quella modalità di occupazione è stata completamente rivoluzionata: dal nomadismo del capitale e dalla sedentarietà del lavoro, dalla tecnologia informatica, dalla globalizzazione economico-finanziaria, dalla frammentazione del mercato del lavoro. Una delle principali conseguenze è che il lavoro è divenuto flessibile, spezzettato, nelle sue dimensioni: spaziali, temporali, contrattuali. Si assiste così al dilagare del lavoro intermittente, o a singhiozzo, precario, falsamente autonomo, a tempo determinato, a basso salario, senza alcuna forma di regolamentazione contrattuale.

Lavoro non solo discontinuo, mal retribuito, ma senza alcuna forma previdenziale e assicurativa, in altre parole attività lavorative in nero.

Spesso si tratta di lavori modesti: giornalieri, settimanali, e, comunque per brevi periodi. E non solo in settori, come l’agricoltura, o il turismo in cui può essere richiesta una bassa qualificazione, ma anche nel settore professionale, dove, al contrario, si richiedono competenze specifiche.

La diffusione di queste forme di attività mette quindi radicalmente in discussione il principio centrale al quale l’idea della “piena occupazione”, perseguita nel corso della società industriale, era legata. Essa includeva, infatti, una relativa sicurezza per le persone, compresa la possibilità di progettare la propria vita.

La stagione secca colpisce il Corno d'Africa ogni anno e, quasi sempre, sono le donne a subire le conseguenze peggiori della fame.

La stagione secca colpisce il Corno d’Africa ogni anno e, quasi sempre, sono le donne a subire le conseguenze peggiori della fame.

Questa rottura ha contribuito in maniera significativa al mutamento della natura e del significato del lavoro dipendente. Tanto nella sfera individuale, sia in quella sociale.

Oggi il termine “arrangiarsi” può risultare persino più adatto a caratterizzare la mutata sostanza del lavoro. Sia perché, valutato realisticamente e nei suoi termini attuali, lo sfronda dal mito di riscatto universale per il genere umano e da quello non meno grandioso di una vocazione lunga una vita. Inoltre perché, liberato dai suoi orpelli escatologici e recise le sue radici metafisiche, il lavoro ha definitivamente perso la centralità attribuitagli all’epoca della società e del capitalismo industriale. Proprio questa evoluzione lo rende sempre meno in grado di offrire il perno intorno al quale legare la definizione di sé. La propria identità, i propri progetti di vita: individuale, familiare e sociale. Naturalmente il risultato di questo mutamento rende anche sempre più difficile immaginarlo nel ruolo di fondamento etico della società. O di asse etico della vita individuale. Malgrado l’uno e l’altro aspetto continuino a restare preminenti nella retorica del discorso pubblico e nella letteratura sul lavoro.

Considerati i termini reali dell’evoluzione in atto, per molti, e per buona parte di giovani, il lavoro ha acquisito (assieme ad altre attività della vita) un significato principalmente estetico. Essi si aspettano infatti che possa essere gratificante di per sé, anziché essere valutato in base agli effetti reali o presunti che può arrecare al prossimo, allo sviluppo del paese. Per non parlare di felicità delle generazioni successive. D’altra parte, solo pochissime persone e solo di rado, possono vantare il privilegio, il prestigio, l’onore, di svolgere un lavoro importante e vantaggioso per l’intera comunità.

Siccome i lavori creativi e gratificanti per chi li svolge sono piuttosto rari, in molte persone tende a crescere la delusione, l’insoddisfazione, la frustrazione. Sia per il lavoro che manca, sia per la qualità del lavoro disponibile.

Sappiamo bene che questo assunto non trova nessun riscontro nella retorica sul lavoro che dilaga nel dibattito pubblico. Questo cosa significa? Che rispetto alle sensazioni, ai sentimenti veri delle persone il problema è inutilmente amplificato? Assolutamente no. Per due ragioni: malgrado tante cose siano cambiate e stiano cambiando – inclusi la cultura del lavoro, il rapporto tra l’uomo ed il lavoro, l’organizzazione e la qualità del lavoro – il lavoro continua a restare un elemento essenziale per la definizione di sé. Della propria identità. Infatti nei rapporti sociali continuiamo ad “essere” anche in rapporto a ciò che facciamo. Il lavoro rimane un elemento insostituibile per il proprio reddito e per i propri progetti di vita.

Lavoratori scioperano davanti all'Ansaldo Breda a Pistoia per difendere i loro posti di lavoro.

Lavoratori scioperano davanti all’Ansaldo Breda a Pistoia per difendere i loro posti di lavoro.

Naturalmente essere senza lavoro non significa morire necessariamente di fame, come spesso capitava invece alle generazioni precedenti, grazie al sostegno della rete di solidarietà formata dalla famiglia di origine (genitori e nonni). Ma significa sempre sentirsi personalmente e socialmente esclusi. Ciò spiega perché, nelle sempre maggiori situazioni di chiusure di imprese, i lavoratori coinvolti esprimano tutta la loro angoscia, il loro sconforto. Che, in alcuni casi, arriva fino ad ipotizzare gesti disperati.

Collegata a questa, ed è la seconda ragione, la perdita e la mancanza del lavoro ha effetti disastrosi sul tessuto democratico di un paese. Purtroppo questo aspetto non viene normalmente discusso con la necessaria consapevolezza. Infatti, come ha spiegato largamente e chiaramente Ulrich Beck, il lavoro retribuito è la precondizione perché una democrazia possa essere vitale. In fin dei conti le sicurezze sociali, compresa una relativa assicurazione per i rischi del mercato del lavoro, sono il presupposto perché i diritti e le libertà politiche diventino una realtà effettiva. D’altra parte la società del lavoro (che in Italia è sancita niente meno che nel primo articolo della Costituzione) presuppone il lavoro e, dunque, cittadini lavoratori. Ed il “cittadino lavoratore” è colui che, da un lato, cerca di costruire condizioni di vita accettabili per sé e per la sua famiglia. Dall’altro, partecipa alla vita politica e democratica con l’intento di rendere praticabili speranze condivise. Da questo punto di vista non si sottolineerà mai abbastanza che lo Stato sociale non è soltanto una assicurazione contro i rischi del mercato del lavoro. Ma è la pietra angolare della democrazia. Perché se una persona non ha un lavoro e quindi un reddito, non ha un tetto sulla testa, non può vestire e nutrire adeguatamente i suoi figli, è piuttosto difficile aspettarsi che possa impegnarsi attivamente come cittadino.

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