Ecco cosa serve all’Italia per ripartire. Intervista con l’economista Giorgio Lunghini

Giorgio Lunghini è socio nazionale della Accademia Nazionale dei Lincei, membro effettivo dell’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, professore di Economia politica nell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia.

Giorgio Lunghini è socio nazionale della Accademia Nazionale dei Lincei, membro effettivo
dell’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, professore di Economia
politica nell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia.

Espressioni come “abbiamo superato il punto di minimo” e “la crisi è finita” si ripetono più o meno ogni semestre, a partire da quel settembre 2008 in cui fu Trichet a dichiarare “abbiamo toccato il fondo”. La recessione è finita veramente, o siamo in una fase di transizione, nel senso che stiamo meno peggio di prima, ma sempre male?

“Credo che la seconda ipotesi sia quella più fondata. Però bisogna fare una distinzione: vi sono alcuni paesi per i quali alcuni segnali evidenti di ripresa ci sono. Purtroppo per l’Italia le cose non stanno così. Tutte le grandezze macroeconomiche hanno segno meno. Questo mi fa pensare che in Italia non si tratti di una recessione, ma di una dinamica piatta che dura da molti anni, il tasso di crescita o decrescita si aggira intorno allo zero. E la depressione con sintomi di deflazione è una malattia grave. Uscire da questa situazione è molto difficile ed è illusorio pensare di potersi agganciare ad altre economie che stanno riprendendo a crescere”.Non  aiuta certamente la crescita il peso del nostro debito pubblico. Per altro aggravato dal contributo agli organismi comunitari. L’Italia ha versato 10 miliardi per prestiti bilaterali (Grecia), 32 miliardi all’EFSF e 8,6 miliardi all’ESM. E’ possibile che l’Italia debba aiutare gli altri, aggravando la propria posizione?

 “E’ un problema di forza contrattuale. La Francia che ha problemi meno gravi di quelli italiani è riuscita ad ottenere qualcosa in questa direzione. Ma la possibilità di intervenire in questa direzione dipende dalla capacità contrattuale; capacità contrattuale che sta ulteriormente diminuendo per via della situazione politica”.

E’ anche un problema di solidarietà tra gli Stati UE?

“Sì, di solidarietà che però non è equamente distribuita. Credo che in questo senso la Germania non cambierà registro, specie dopo il successo elettorale ottenuto dalla Merkel.

Nell’aggiornamento al Documento di economia e finanza il Governo prevede che il debito pubblico nel 2013 dovrebbe attestarsi al 132,9% del Pil, mentre il rapporto tra deficit e Pil è al 3,1%. L’Europa chiede l’adozione di misure tempestive per assicurare il rispetto degli impegni su deficit, pareggio di bilancio e debito. Letta rassicura l’Europa e la nazione. Ma proprio la bassa o nulla crescita, comporta meno entrate e la spesa pubblica continua ad aumentare sia pure a ritmo più blando. Riusciremo a rispettare gli impegni assunti con l’Europa?

“Pesa la situazione politica italiana. La vicenda Imu è emblematica. In tutti i Paesi un’imposta analoga, anche se diversamente modulata, esiste. Poi c’è il problema dell’aumento dell’Iva. Vale molto la recente dichiarazione di Draghi, che pur non nominando mai l’Italia, si rivolge a noi. Ci sono tre elementi indispensabili per una ripresa effettiva: politiche fiscali e macroeconomiche sostenibili e soprattutto maggior competitività, che significa più produttività (ferma da dieci anni).

Significa che non lavoriamo abbastanza?

Significa che occorre provvedere a spingere la competitività. E’ innegabile che ci siano centinaia di imprese italiane che sono competitive grazie all’innovazione e alla qualità dei loro prodotti. Il problema è che non siamo competitivi come sistema!

Come possiamo aumentare la nostra competitività?

“Ciò può avvenire con tre mosse: l’innovazione e gli investimenti. Questo è compito delle imprese, che sono piccole e medie, mentre la produttività è spinta in alto tradizionalmente dalle grandi. Occorre, però, anche l’intervento dello Stato. Occorre che il Governo centrale fornisca un contesto istituzionale adeguato ad un’economia industriale moderna, con procedure amministrative e giudiziarie più snelle. E’ notevole che idee di questo genere siano state recepite dal Governo, ma soltanto al fine di attirare degli investimenti esteri. Misure di questo genere sono state annunciate, ma non capisco perché debbano riguardare solo eventuali investimenti esteri, investimenti intesi come creazione di nuova capacità nel nostro paese”.

La disoccupazione ha raggiunto percentuali intollerabili: 12,0% a luglio; 39,5% il tasso di disoccupazione fra i giovani. In Europa fan peggio Spagna e Grecia. Come valuta gli interventi varato dal Governo Letta per stimolare gli investimenti, alleggerire il peso della burocrazia e creare lavoro? Ritiene che bastino? Si può fare di più?

“Avremmo dovuto fare di più negli ultimi anni. Il pagamento dei debiti alle imprese è questione di civiltà economica. Debiti che, una volta certificati, devono essere onorati. Poi c’è il problema del credito alle imprese. Gli interventi della BCE, di immissione di denaro nel sistema mediante l’acquisto di titoli di Stato, non si trasmettono al mercato del credito italiano, e questo è un problema che può essere risolto soltanto a livello europeo. Draghi l’ha già detto: occorre far evolvere il sistema verso un’Unione bancaria.

Già la stretta creditizia. Bankitalia nel suo ultimo Supplemento al Bollettino conferma che a luglio i prestiti al settore privato sono scesi del 3,3%. Le misure ordinarie e straordinarie adottate dalla BCE oltreché a migliorare il clima di fiducia dei mercati finanziari, a ridurre la frammentazione e la leva finanziaria, ad allentare la tensione sul mercato e calmierare gli spread, non dovevano servire a far sì che le banche rifinanziandosi a tassi bassi, riprendessero a fornire credito all’economia reale?

La BCE non c’è riuscita. Non credo che per questo si possa criticare Draghi. “Faremo tutto ciò che è possibile per salvare l’euro” disse Draghi nel luglio 2012, ma il resto lo devono fare i governi nazionali. Non dimentichiamo che la BCE, a differenza della Riserva federale americana, ha come scopo di contrastare l’inflazione, non anche quello di stimolare la crescita. Ciò è successo perché abbiamo conferito all’UE la leva monetaria, ma non la leva fiscale dal lato delle entrate e della spesa. Ciò che può fare Draghi è previsto dall’architettura istituzionale: poi tocca ai singoli Governi fare. Ma di nuovo allora pesa quel vincolo del 3% tra deficit e Pil, che oltretutto è adesso un vincolo contenuto nella Costituzione, sia pure con qualche correttivo. Il problema è l’eccesso della spesa pubblica improduttiva e l’elevata evasione fiscale, che rende tutto più complicato”.

Le banche dal canto loro si difendono ricordando il peso delle sofferenze (+ 22,2%) a giugno con 70,6 miliardi netti. Tra un mese l’Eba, l’autorità bancaria europea farà chiarezza su crediti deteriorati e sofferenze. Il che potrebbe far lievitare i dati sui crediti incagliati. Le banche italiane hanno bisogno di ricapitalizzarsi? E’ configurabile un intervento dello Stato?

Credo che sia necessario. Le banche italiane non sono messe male. Tuttavia anche qui ritorna il problema centrale: quello di come favorire l’occupazione dei giovani da parte delle imprese. Un problema importante allora è quello della riduzione del cuneo fiscale, che pesa sui lavoratori e sulle imprese. Ma anche in questo caso le difficoltà politiche rendono più difficile agire in questa direzione.

 

 

 

 

 

 

 

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